Per cogliere la matrice forse più profonda del “Qatargate” – da alcuni quotidiani europei già ribattezzato “Italian job” o “Italian connection”, poco onorevole riconoscimento della nazionalità prevalente tra i protagonisti – basta tornare a Alexis de Tocqueville, il più grande studioso della democrazia contemporanea: “La democrazia non ha un nemico più insidioso del denaro. E’ un nemico formidabile perché agisce per vie nascoste e così raggira uomini inconsapevoli”. Ed eccoli raggirati i cittadini europei, persuasi che la forza morale delle loro istituzioni europee democraticamente legittimate potesse rappresentare un baluardo sufficiente contro l’influenza contaminatrice delle valigette di denaro, delle consulenze artefatte, delle donazioni fittizie – tra l’altro provenienti da regimi di marcato stampo autoritario.

L’Europarlamento di Bruxelles sembra essersi trasformato in agile terreno di caccia per lobbisti, speculatori e faccendieri assortiti, un suq affollato da centinaia di ex-europarlamentari che, smessi i panni di rappresentanti del popolo, subito si rivestono con quelli di rappresentanti dei potentati economici o di potenze straniere, ovvero di animatori di opache Ong dalle finalità tanto nobili quanto impalpabili. Un’immagine desolante, ma istruttiva. Se ne ricavano infatti alcune lezioni non banali sull’evoluzione adattiva della pratiche della corruzione contemporanea.

In primo luogo, non vi è alcuna avvisaglia di un’ipotetica “mani pulite” su scala europea. L’inchiesta cominciata nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa svelò infatti l’esistenza di un meccanismo di regolazione della corruzione sistemica incentrato sui partiti, capaci di disciplinare in forma pressoché monopolistica, ad ogni livello di governo, vorticosi circuiti di scambio occulto tra allocazione di risorse pubbliche e mazzette – in parte convertite in mezzi di finanziamento organizzativo. Per quanto emerso finora, nel cosiddetto Qatargate, non affiora alcuna riconoscibile “cabina di regia” delle pur fitta trama di operazioni illecite, né alcun legame col finanziamento di organizzazioni partitiche. Vi sarebbero invece alcuni snodi, uno in particolare, incarnato dall’ex-europarlamentare del gruppo socialista Panzeri, all’interno di un rete estesa e ben ramificata di contatti informali – si ipotizzano almeno altri 50 deputati europei avviluppati nelle “relazioni pericolose” con gli arrestati.

Ma le figure di riferimento non assumono il ruolo di organizzatori, regolatori e garanti, bensì di meri “fixer”. Si tratta, in altri termini, di procacciatori d’affari che capitalizzano il proprio patrimonio di relazioni e conoscenze pregresse mettendosi a disposizione del miglior offerente. Poco cambia, ai loro occhi, che si tratti del governo del Qatar desideroso di mettere la sordina alle critiche europee alla soppressione di diritti ai lavoratori immigrati, ovvero di quello del Marocco intenzionato ad ammorbidire le posizioni dell’Europarlamento in merito alla repressione delle rivendicazioni indipendentiste del popolo Saharawi. O di qualsiasi altro danaroso acquirente dei loro servizi.

In questa cornice si spiega anche la prevalenza di attori provenienti dallo stesso gruppo parlamentare e della medesima nazionalità, quando non legati da vincoli affettivi. In assenza di un “centro di potere” riconosciuto nella rete della corruzione, capace di mettere ordine nel turbinio di transazioni e passaggi di risorse (dalle valigette zeppe di contanti alle bustarelle, dai sontuosi viaggi-regalo agli oscuri bonifici), i partecipanti tendono infatti a cercare garanzie (di non essere segnalati, denunciati o, più banalmente, “fregati” dalle controparti) nella reciproca familiarità.

Una fiducia che spesso può scaturire da una frequentazione consuetudinaria, così come dalla condivisione di una precedente esperienza politica o professionale. Questo non esclude affatto che altre “reti fiduciarie”, formate da soggetti di diversa nazionalità e orientamento partitico, si siano costituite e operino, ben al riparo nelle stanze delle istituzioni europee, quali porte di accesso riservato e privilegiato per gli stessi o altri tipi di interlocutori privati – o esteri – dotati di sufficiente “potere d’acquisto”. Magari in grado di impiegare tecniche più sofisticate e a prova d’indagine giudiziaria, senza farsi beccare con le montagnole di banconote in casa o le valige di contanti imbarcate di fretta sul volo Ryanair.

Detta altrimenti, pare che i “politici d’affari”, descritti da Alessandro Pizzorno e Donatella della Porta nei loro lavori pionieristici sull’italica corruzione degli anni 90, abbiano attraversato un processo di evoluzione darwiniana. Nel nuovo millennio operando in un nuovo “ecosistema politico-istituzionale” privo dei saldi e duraturi riferimenti partitici del passato – specie nel frammentato contesto europeo – si sono legati con successo a chi poteva meglio foraggiarli e proteggersi contro l’incertezza dei possibili rovesci della carriera ponendosi così, più o meno, esplicitamente “a libro paga” di portatori di interessi esterni, privati e particolaristici. Hanno così seguito una parabola che da “politici d’affari” li ha trasformati in “affaristi della politica” – tanto che siedano nelle sedi rappresentative, meglio ancora se operanti in un cono d’ombra, una volta cessato l’incarico.

In questa nuova veste, gli affaristi della politica riescono ad innalzare la soglia del valore delle risorse in gioco fino a vette tali da renderle pressoché indistinguibili. Se operano con accortezza, facendosi schermo di Ong dai bilanci capienti, o assicurando a ricchi Stati esteri imponderabili prestazioni di “consulenza professionale”, i più accorti e abili “politici d’affari” riescono ad operare proficuamente in una sorta di limbo legale. Si potrà definire una forma di “corruzione legalizzata”, non più riconoscibile né perseguibile con gli strumenti del codice penale, quella che passa attraverso l’approvazione di provvedimenti legislativi, dunque attraverso l’espressione di insindacabili “voti e opinioni” garantiti costituzionalmente, per assicurare selettivamente benefici a portatori di interessi economico-commerciali, o peggio ancora a potenze estere.

Nella desertificazione degli ideali politici e della capacità di indirizzo partitico non vi è più alcun provvedimento, direttiva, mozione, presa di posizione pubblica che non possa essere convertita in merce di scambio – vedi gli ex-sindacalisti che si fanno promotori di riconoscimenti istituzionali delle “coraggiose” politiche del lavoro qatarine. Non più soltanto un sordido giro di bustarelle in cambio di appalti o concessioni, ma il nebulizzarsi delle contropartite nell’olimpo di una presunta “alta politica”, dove persino le scelte legislative o di governo, che dovrebbe rispecchiare il bilanciamento tra visioni differenti di una convergente ricerca dell’interesse collettivo, sono la risultante di una campagna acquisti giocata dietro le quinte della rappresentazione democratica.

Soltanto ricollegandole alla “pistola fumante” delle mazzette da smaltire – come nell’incredibile Qatargate – si potranno ex-post riconoscere come prezzo della corruzione i sontuosi “viaggi diplomatici”, le insistite “relazioni diplomatiche”, le legittime – per quanto discutibili – opinioni espresse in sedi politiche o istituzionali. E’ fin troppo evidente la natura tossica e corrosiva di queste pratiche, che avvolgono qualsiasi opinione o decisione democratica in una nebbia di sospetto sui suoi reali moventi alimentando disincanto e sfiducia dei cittadini.

Un’ultima considerazione, che chiama in causa direttamente l’Italia. L’assenza di una regolazione dell’attività di lobbying è una lacuna ben nota del nostro ordinamento. Eppure l’approvazione una pessima legge condurrebbe a uno scenario peggiore del vuoto attuale: una normativa lacunosa o ambigua – già alcune proposte di legge si stanno avviando nell’iter parlamentare – può finire per sdoganare definitivamente pratiche discutibili e abusi conclamati dietro una patina di formale legittimità. Un vento ancora più gelato spira sul versante della già precaria repressione penale. Le principali attività criminali, contestate ai protagonisti delle mazzette all’Europarlamento, sono chiaramente riconducibili al reato di “traffico di influenze illecite” – l’attività dei faccendieri che allacciano relazioni tra corrotti e corruttori lubrificando i canali di circolazione di favori e mazzette.

E le indagini dei servizi segreti belgi, poi transitate alla Procura, sono scaturite da un’intensa ed estesa serie di intercettazioni telefoniche e ambientali, il cui successo è stato favorito dall’apparente delirio di impunità dei protagonisti, in contrasto con la beffarda ragione sociale “Fight impunity” di una delle Ong coinvolte. Ebbene: la piattaforma programmatica del nuovo ministro della Giustizia Nordio prefigura – con precisione chirurgica, si direbbe – proprio l’abrogazione (o lo smantellamento) del reato di “traffico di influenze”, accanto a un drastico ridimensionamento delle intercettazioni, anche per i reati di corruzione.

I parlamentari italiani, che stanno valutando se mettersi a libro paga di qualche potenza straniera o lobby corruttrice, potranno presto dormire tra due guanciali sonni ancor più profondi. In Italia abbiamo già imparato ad applicare a modo nostro la lezione dello scandalo di Bruxelles. Quando si tratta di garantire l’impunità ai crimini dei potenti sembra infatti ben applicarsi un noto stereotipo internazionale: “Italians do it better”.

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