Cinema

Le otto montagne, il romanzo di Paolo Cognetti diventa un film profondo e intenso con i registi di Alabama Monroe

Il film, in sala dal 22 dicembre, sembra essere la naturale propaggine in immagini del libro. Non avremmo puntato nemmeno mezzo euro sulla sfregola creativa verso un’opera “italiana” da parte dei registi belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. E invece, accidenti a loro, il film fa respirare il romanzo, ne accoglie l’intensa profonda silenziosità esistenziale, ne sviluppa l’incombente totalizzante profondità di campo

di Davide Turrini

Certo, il grosso l’ha fatto Paolo Cognetti scrivendo il romanzo, ma Le Otto Montagne, il film, in sala dal 22 dicembre, sembra essere la naturale propaggine in immagini del libro. Non avremmo puntato nemmeno mezzo euro sulla sfregola creativa verso un’opera “italiana” da parte dei registi belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (Alabama Monroe), anche dopo aver sbirciato il set in Valle d’Aosta nel giugno 2021. E invece, accidenti a loro, il film fa respirare il romanzo, ne accoglie l’intensa profonda silenziosità esistenziale, ne sviluppa l’incombente totalizzante profondità di campo. Inutile, Le otto montagne più rimane lì davanti agli occhi, ora dopo ora, più si sovrappone alla pagina scritta. Intanto lo script è davvero carta carbone, selezionata e sezionata in minimi precisi dettagli, del romanzo di Cognetti. Nessun stravolgimento di senso e di storia. Solo la giusta, equilibrata taratura filosofica attorno a misuratissimi versi del libro declamati dalla voce fuori campo del protagonista Pietro (Luca Marinelli) e all’attento scalpellare sequenza dopo sequenza sull’ossatura del già scarno romanzo.

Van Groeningen e Vandermeersch, insomma, hanno trattato il libro – uno dei più celebri casi letterari italiani degli ultimi dieci anni e vincitore del premio Strega– con estrema delicatezza e rispetto. Filmato con cinecamera agile digitale in formato 1,33:1 (ovvero nel celebre 4/3) e con numerosi mezzi busti e piani americani con tantissima aria sopra la testa dei protagonisti, Le otto montagne (presentato all’ultimo Festival di Cannes) è la storia di un’amicizia tra l’introverso Pietro (da grande interpretato, appunto da Marinelli), un bimbo di città che ogni estate trascorre le vacanze in un antico paesino di montagna in Valle d’Aosta, e il silente Bruno (da grande interpretato da Alessandro Borghi), figlio di montanari del posto, bambinetto già avvezzo ai lavori nella stalla, da casaro e da muratore. Il papà di Pietro, appassionato di alpinismo, porta continuamente il figlio a fare escursioni in alta montagna ma dimostrerà insieme alla moglie, insegnante, l’intenzione di garantire anche a Bruno la possibilità di studiare in città. Quando i genitori di Bruno faranno sparire dalla circolazione il ragazzino mandandolo in cantiere per non farlo studiare, anche l’amicizia animalesca tra passeggiate, scalate sulle vette e bagni nei laghi tra i due bambini si esaurirà per qualche tempo.

I due ragazzi solo da adulti, dopo la morte del papà di Pietro, si incontreranno nuovamente in montagna. Insieme, durante un’intera estate in alta quota, ricostruiranno un rudere facendolo diventare una piccola baita isolata dal mondo. Era la promessa che Bruno aveva fatto al padre di Pietro. Perché mentre Pietro si era violentemente separato dal padre (Filippo Timi), l’uomo aveva segretamente stretto un legame forte con Bruno tornando ogni volta che poteva a passeggiare con il ragazzo sui sentieri rocciosi. Amicizia virile e inespresso rapporto padre-figlio sono i tormentati, malinconici temi conduttori del romanzo come del film. Van Groeningen e Vandermeersch ne riprendono i tratti essenziali adornandoli con fare spurio con quegli oggetti materici – quaderni di carta, mappe e cartine, pennarelli e biro, tazze calde, cuffie -, dipingendoli di una magia grezza che scartavetra la pelle e lo stomaco. È tutto un riannodarsi e uno snodarsi di fili dell’anima, Le Otto montagne, fili di una pace quieta che sembra sempre slittare oltre i ricordi e i rimpianti dei protagonisti. In un’opera che gradualmente invece che stringersi nel tempo e nello spazio, si dilata, si allarga, sfuma nei luoghi himalayani dove Pietro ritroverà tracce vive e profonde di sé, come nella vastità dell’alta montagna che Bruno esplora da predestinato nel suo sfaldarsi lavorativo e familiare. Le Otto montagne ha poi questa forza espressiva centripeta della natura che non è mai mitizzazione o cartolina (quella che Bruno chiama idea “astratta” di quelli che vivono in città), questo chiamare a sé l’attenzione dell’uomo urbano (le città sono spazi orridi e cupi) verso il mistero delle vette aspre e scure, questo posare lo sguardo (davvero memorabile la carrellata in chiusura con i dettagli del bosco) su fotogrammi che osano il punto infinito, inquieto, finanche oscuro del cosmo oltre il riconoscibile dell’occhio come raramente il cinema ha offerto negli ultimi decenni.

Il soundtrack struggente folk di Daniel Norgren è un bell’amo emozionale quando il film sta ancora ingranando e poi si amalgama nei tessuti e nell’epidermide dei protagonisti. Qui, va detto, lavorando di sguardi, silenzi prolungati, minimi movimenti del corpo, Borghi eccelle nel carpiato di un montanaro taciturno ed ancestrale, nascosto dietro un barbone foltissimo e uno sguardo rude, mentre Marinelli la sente un po’ meno, fatica di più nella mutazione caratteriale e psichica, e ogni tanto sembra pure stia per sbottare in un bestemmione in romanesco. Paolo Cognetti appare in un paio di sequenze come collega in cucina di Pietro. Diverse volte fa capolino lo splendido rifugio Il pranzo di Babette a Brusson, dove Cognetti ha realmente lavorato all’epoca durante la scrittura del suo primo romanzo.

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