Quella tunica fatta indossare a Leo Messi nel momento del trionfo è passata alla storia come il simbolo delle contraddizioni del primo Mondiale in un Paese arabo, ma anche dell’ipocrisia del mondo occidentale. Per un mese ci siamo indignati sul divano o davanti alla tv. Ci siamo stupiti che il Qatar si sia preso la Coppa con l’arroganza tipica di chi possiede i soldi e pensa che tutto sia dovuto. Ma il pallone agli emiri gliel’abbiamo consegnato noi. E a quanto pare saremo pronti a farlo ancora.
Qatar 2022 è in archivio. I padroni del pallone pensano già al futuro, e tra i vertici della grande Fifa e la nostra piccola, provinciale Serie A non c’è troppa differenza. Per l’edizione 2030 (che verrà assegnata nel 2024) i rumors danno per favorita l’Arabia Saudita di Bin Salman, Paese che non salva nemmeno le apparenze, a differenza dei “cugini” del Qatar che almeno si presentavano con un volto rassicurante e progressista. I soldi, la promessa di aumentare partite e ricavi – a qualsiasi costo, che siano i diritti umani o lo spirito del gioco – sembra essere ormai l’unico principio che guida un sistema forse compromesso in maniera irrimediabile.
Lo dimostra anche il nostro campionato: fra un mese esatto la Serie A sarà a Riad per la Supercoppa italiana, terza e ultima edizione in terra saudita prevista dal contratto milionario firmato nel 2018, forse la prima di una lunga serie. Sul tavolo della Lega calcio c’è infatti l’offerta per rinnovare ed ampliare l’accordo: oltra alla tradizionale gara secca tra la vincente del campionato e quella della Coppa Italia, si parla addirittura di una Final four (dunque quattro squadre per tre partite, semifinali e finale), per possibili sei edizioni, fino a un massimo di 138 milioni di euro. Le alternative non più rassicuranti: c’è Abu Dhabi (sempre con la proposta della Final four, per cui servirebbe però una modifica al format), mentre in passato come rivelato dal ilfattoquotidiano.it si era fatta avanti anche l’Ungheria di Viktor Orban. Proprio negli scorsi giorni l’assemblea di Lega ha votato un mandato non esclusivo a trattare coi sauditi, che vale poco o niente (non essendo vincolante), ma dimostra anche l’immutata sensibilità agli argomenti (cioè i soldi) di certi Paesi, nonostante tutto quello che è successo di recente in Qatar.
Non è un caso. Ad avere bisogno dello sport e potersi permettere il suo gigantismo moderno, sono sempre più Paesi ricchi e poco democratici, disposti a investire miliardi (che gli Stati occidentali non vogliono più sprecare, o semplicemente non hanno) per ripulire la propria immagine. Le critiche da maître à penser che poi arrivano sistematicamente a ridosso dell’evento sono fuori luogo: è successo in quest’ultimo mese con il Qatar, era accaduto nel 2019 con una delle prime edizioni della Supercoppa giocate a Riad, diventata un autentico caso nazionale a mesi di distanza dall’omicidio Kashoggi. Sempre troppo tardi. Inutile chiudere i cancelli quando i buoni sono ormai scappati dalla stalla. Perché riversare sul gioco e sui calciatori le mancanze del sistema. Prima lasciamo passare in sordina assegnazioni scandalose, tra la complicità delle istituzioni e il silenzio dei media. E poi ci risvegliamo indignati.
Oggi, della candidatura saudita ai Mondiali del 2030 o del rinnovo della Supercoppa araba non parla quasi nessuno. Ma le partite vanno giocate quando si possono vincere. Quando iniziano, e non quando sono già finite. Questo è il momento in cui si deciderà il futuro del calcio, ed è ora che si può fare qualcosa. Se il Qatar ci ha insegnato una lezione, è quella di non consegnare la vetrina del pallone ad autocrati di dubbia moralità: giusto esportare i valori del calcio ovunque, ma bisognerebbe chiedere in cambio delle garanzie, come il rispetto della legge e dei diritti umani che invece in Qatar sono stati sistematicamente violati. Se qualcuno è contrario ai Mondiali o alla Supercoppa in Arabia, parli ora. Oppure taccia durante la prossima partita.
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