di Maurizio Clemente

Gentilissima redazione del fattoquotidiano.it,

visto che avete una sezione del vostro blog ove si possono raccontare le proprie disavventure nel mondo del lavoro, vorrei parlarvi della mia tragica esperienza, quella che un 27enne del Salernitano come me non si augurerebbe mai di fare.

Era giugno dell’anno scorso quando, volendo trovare un lavoro, mi imbatto in un annuncio online per la professione di cameriere da pub e mando il mio curriculum. Dopo il colloquio fui scelto per lavorare in uno dei tanti locali della grande azienda per la quale mi ero candidato. Ero emozionatissimo: avevo fatto poche esperienze nel mondo del lavoro e, a causa della mia malattia cronica, il diabete di tipo 1, nonostante la mia giovane età e le mie due lauree, nessuno voleva sobbarcarsi il peso di avere un dipendente con queste problematiche.

All’inizio non mi resi conto di come gli orari di lavoro fossero eccessivamente dilatati poiché non avevo altri confronti: si superavano le 10 ore e talune volte anche le 12 quando la serata proseguiva più del dovuto. Si iniziava la mattina, poi uno stacco di qualche ora e via con altre 5 ore la sera, oppure vi era il turno unico che iniziava alle 16 e finiva alle 2 di notte. Non mi fecero neanche firmare il contratto di lavoro che mi arrivò online dopo due mesi già tutto compilato e scoprii che, nello stesso, era scritto che facessi un part-time di sole 4 ore al giorno, ma, essendo una delle mie prime occupazioni, decisi di trascurare questo particolare. Sapevo benissimo che, se mi fossi lamentato, vista la situazione preoccupante della Campania, ne avrebbero trovati altri disposti ad accettare queste umilianti condizioni lavorative, quindi l’unica soluzione era rimanere muti nella speranza che, lavorando, la mia condizione potesse migliorare nel tempo. Dopo un mese durante il quale tornavo a casa sempre alle 2 o alle 3 di notte e ricevevo a stento mille euro, con pochi contributi visto che i datori avevano dichiarato che il mio fosse solo un part-time.

Mi chiedo, ancora oggi, cosa per loro fosse un full time se per part time intendevano stare nel loro pub 10 ore al giorno.

Il continuo stress che provavo e l’ansia derivante dalle insistenti richieste che, lentamente, mi spogliavano anche del poco tempo libero che avevo si riflettevano anche sulla glicemia la quale, quando lavoravo e non avevo tempo di controllarla, toccava anche i 500 punti destabilizzando il mio intero organismo e provocandomi una persistente debolezza. Talune volte, invece, avevo ipoglicemie e perdevo lucidità mentale visto che non avevo tempo di rifornire adeguatamente il mio corpo degli zuccheri necessari per compensare le dosi di insulina che mi iniettavo.

Quando questo accadeva difficilmente nell’azienda qualcuno associava il mio continuo malessere ad orari che mi impedivano di prendermi adeguata cura della mia malattia: invece, la colpa ricadeva su di me che dovevo occuparmi della mia glicemia pur non avendo adeguate pause durante il turno al fine di gestirla a dovere.

In Campania avere una malattia cronica rende difficilissimo trovare un lavoro e questo implica che, quando ne trovi uno, sei costretto a sacrificarti più di quanto la tua malattia ti permetterebbe, come forma di riconoscenza verso chi ti dà la possibilità di sentirti integrato nel mondo del lavoro. In questo modo, però, l’unica ricompensa che ricevi è un graduale indebolimento che, come nel mio caso, può comportare anche gravi complicazioni.

Dopo un anno molto intenso, il mio sistema immunitario iniziò a indebolirsi; inoltre, nelle serate più concitate, era diventato usuale che si dovesse chiamare l’ambulanza poiché il troppo lavoro mi rendeva impossibile gestire i livelli di zucchero nel sangue al punto da perdere coscienza. Ebbi anche una grave mononucleosi che mi impose di stare a casa per un mese e fui licenziato.

Nonostante questa storia sia di per sé già orribile, c’è da aggiungere che ora, a distanza di sei mesi, non mi hanno ancora pagato un mese e mezzo, il Tfr e la malattia. Mi hanno solo proposto, dopo 5 mesi, 1.500 euro per chiudere del tutto il rapporto di lavoro, ma io mi sono rifiutato di accettare questa misera somma. Quest’ultima è una proposta indecente: una volta concessa alle aziende la possibilità di spremere fino all’ultimo i loro dipendenti, queste, abituate ad averla sempre vinta, non si pongono un limite, neanche se questo fosse dettato dall’etica o dalla decenza e vogliono privare noi giovani del poco che ci spetta anche quando abbiamo lavorato sodo.

Che senso ha prendersela coi giovani dicendo che non vogliono lavorare se poi, quando lavorano, non ricevono neanche un compenso adeguato? Risulta, da parte delle imprese, un modo di ragionare troppo egoistico quello di ritenere che noi possiamo piegarci a qualsiasi condizione ci venga proposta e poi, nonostante questo, non poter neanche richiedere una retribuzione che possa compensare il tempo e la vita sottratta alla nostra giovinezza.

Un saluto, cara redazione.

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