Se con la morte di un gigante come Alberto Arbasino si è chiusa l’epoca dell’intellettuale minimo, con la morte dell’89enne Alberto Asor Rosa, avvenuta nelle scorse ore a Roma, si chiude definitivamente l’epoca dell’intellettuale totale. Non il concetto gramsciano di intellettuale organico (Asor Rosa non volle mai definirsi tale, anzi), ma quell’idea di una figura critica e controcorrente nel proprio ambito di studi (qui la letteratura) che può agire in chiave filosofica e politica di rottura comunque in un contesto rigidamente istituzionale. Professore ordinario fin dal 1972 di Letteratura a La Sapienza, storico e saggista instancabile, deputato del PCI dal ’79 a’80 dopo essere uscito dal partito per i fatti d’Ungheria nel ’56, figlio di impiegati, Asor Rosa iniziò a frequentare da studente La Sapienza nei primi anni cinquanta quando si profilarono le tracce evidenti del grande scontro ideologico tra conservatorismo e progresso che avrebbe monopolizzato il dibattito politico fino agli anni novanta del Novecento. Come spiegò in diverse interviste lo stesso Asor Rosa erano i tempi in cui tra professori, studenti e personale universitario c’era un’unità d’intenti mai più verificatasi nei decenni successivi, ma soprattutto dove i deputati comunisti erano continuamente attivi nell’illustrare, discutere e confrontarsi assieme a studenti e docenti le linee programmatiche del partito. Si afferma probabilmente qui la naturale fusione, a sinistra, del pensiero politico con quello accademico e di partito. Riflessione che si allarga inevitabilmente nel rapporto tra potere e massa che prima Asor Rosa – uscito momentaneamente dal PCI nel ’56 – declinerà in chiave operaista collaborando con riviste come Quaderni rossi e Classe operaia, e che poi sfocerà nel saggio Scrittori e popolo (pubblicato nel 1965 da una piccola casa editrice poi risucchiato da Einaudi) uno dei più importanti testi del secondo Novecento che ha orientato il dibattito intellettuale italiano nel contesto social comunista. In quel libro Asor Rosa appena trentenne propose un testo di critica letteraria dirompente, preconizzatore non volontario di istanze sessantottine, senza dimenticare le radici storiciste marxiste, in cui si mescolavano storia della letteratura italiana, militanza politica attraverso il proprio agire culturale e i prodromi del concetto (denigratorio) di populismo.
L’approccio stimolante alla sua materia accademica rimane in parallelo con questo suo ondeggiare fuori e dentro la grande madre partitica del comunismo italiano. Prima si avvicina al PSIUP di Vecchietti e Lombardi, rimescola le carte del pre e post ’68 fondando Contropiano con Toni Negri e Massimo Cacciari, e negli anni settanta si riavvicina al PCI, finendone deputato, partito oramai non più arrabbiato con il prof che l’Unità all’uscita di Scrittori e Popolo aveva definito con fare sprezzante come “piccolo borghese”. E’ a quel punto che si staglia la figura del professore di letteratura capace di sintetizzare anelito ad una oramai opacizzata spinta rivoluzionaria e alla sintesi politica complessiva rispetto alle mutazioni culturali e sociali borghesi in atto negli anni ottanta. Alla morte di Berlinguer è tiepido con la segreteria Natta, inizia la collaborazione con la Repubblica scalfariana al suo massimo fulgore nell’ambito di un plateau di lettori progressisti in senso ampio, si avvicina a Occhetto ma poi lo abbandona quando il neo segretario muterà il nome al partito per avvicinarsi nuovamente alla corrente di Ingrao. Avversato dai miglioristi, l’ala più ciecamente sovietica del partito anche post ’89, dei Napolitano e Chiaromonte, Asor Rosa finisce per diventare una sorta di guru e oracolo da sfregare ogni volta che si vuole capire alla base i cosiddetti problemi della sinistra. Totalmente avulso da una riflessione davvero critica sul ciclone neoliberista che si abbatte, risucchiandole e acquistandone i favori governativi in mezzo occidente, dalle socialdemocrazie europee, Asor Rosa prima vagheggia “una rivoluzione democratica italiana” (La sinistra alla prova, 1996) poi torna con più smalto al grande tema della figura dell’intellettuale novecentesco scomparso nell’industria culturale del nuovo millennio che ha saputo trasformare il mercato e il concetto di consumo come una sorta di elemento naturale dell’uomo. Ne Il Grande silenzio (Laterza) pubblicato nel 2009 delinea la scomparsa del nesso tra cultura e politica, il “vuoto del pensiero critico” che lui aveva provato a stuzzicare con scalpore proprio nel lontano 1965 inimicandosi nientemeno che il PCI (ma non il Partito Democratico dei primi due decenni del duemila).