Alberto Asor Rosa avrebbe compiuto, nel 2023, novant’anni anni e solo per pochi giorni ha mancato il nuovo anno. Era nato a Roma il 23 settembre 1933. Avrebbe sicuramente giocato su questo numero dantesco, ricorrente nella sua vita.
Ricordo ancora l’ansia di aver abbandonato figli piccoli e marito quando corsi a Roma nel 2003 (ancora una volta il tre!) per assistere alla lectio magistralis che il mio professore tenne all’Università La Sapienza per congedarsi dai 52 anni di insegnamento. Fu una lezione ferma e commossa, la voce di Asor Rosa si diffondeva nell’aula magna impietrita dal silenzio e stipata di studenti, ex-allievi e colleghi. Di nuovo risuonavano come tanti anni prima i nomi di Machiavelli, Guicciardini e su tutti il Boccaccio, amore inesausto che mi ha trasmesso. Dopo la lectio magistralis, ripreso affannosamente il treno per la Toscana, gli scrissi un biglietto in cui lo ringraziavo per tutto quello che mi aveva insegnato quando ero stata sua allieva, in primis l’attitudine seria e minuziosa necessaria ad avvicinare i testi in poesia e in prosa dei nostri autori più grandi.
Mi rispose, evento non scontato nel mondo universitario italiano, con una lettera che conservo gelosamente, in cui mi ringraziava, elogiava le mie qualità di studentessa e, citando il titolo della tesi di cui era stato relatore (discussa nel marzo del 1986, come recita l’incisione sull’orologio che per l’occasione, secondo la migliore tradizione, mi fu regalato per la laurea), aggiungeva di aver conservato un ottimo ricordo di quel mio lavoro giovanile.
Qualche anno dopo il suo congedo dall’insegnamento, lo incontrai di nuovo. Non ricordo se fosse tarda estate oppure già autunno, ricordo invece molto bene che, arrivando in treno a Roma, il grigio di Porta Maggiore mi accolse inondato di una incantata luce dorata, tipica di certi tramonti capitolini. Uscita dalla stazione Termini fui colpita da una brezza serotina che si addiceva al mio stato d’animo improvvisamente felice.
Allontanarmi da Lucca, lasciare la campagna in cui vivevo da più di vent’anni per immergermi nell’immenso caos di Roma mi ha sempre procurato un brivido di gioia indecente, voluttuosa, segreta, ma quel giorno c’era qualcosa in più, un’emozione giovanile mischiata a una inusuale trepidazione.
Mia madre mi aveva annunciato per quella sera una cena in cui aveva invitato, avvertendolo della mia presenza, anche Alberto Asor Rosa. Avrei avuto modo di stringergli la mano, di scambiare con lui qualche ricordo e forse di raccontargli cosa avessi fatto della mia vita. Ero una donna adulta, con tre figli, un podere e una “stanza tutta per me” dove coltivare, quasi in segreto, la mia passione per la scrittura; eppure sentivo quel fremito di insicurezza e di riverenza che provavo negli anni universitari quando mi trovavo di fronte a lui.
Alberto Asor Rosa quella sera entrò in casa di mia madre, e siccome per me era sempre “il professore”, non riuscii a essere neanche per un attimo disinvolta. Ma lui si tolse il cappotto e mi disse, offrendomi una busta gialla: “Ecco, per te”; lo disse con la sua voce lenta, solenne, ma nello stesso tempo colorata da un tono divertito e ironico (ricordo che a volte a lezione quando si levava gli occhiali e leggeva un passo del Decameron non riusciva a trattenere un sorriso di emozione e di simpatia che trapelava dall’azzurro degli occhi).
“Cosa è, professore?”. Era la mia tesi di laurea. I quasi trent’anni anni trascorsi si annullarono in un istante. “Le tesi migliori le ho conservate”, disse. Arrossii. I caratteri dell’Olivetti, nitidi e ordinati e i grafici fatti a mano per illustrare alcuni concetti ricorrenti nelle novelle oggetto della mia tesi, mi riportarono a quella Margherita di allora, scrupolosa e insicura. La sfogliai con una gratitudine commossa per quella ‘me’ che mi restituiva, ma non riuscii a dire altro che “grazie, grazie”. Asor Rosa la riprese, la rimise nella busta e mi disse: “Le conservo catalogate e ogni tanto le rileggo”.
Nel gesto di quella bella sera di tarda estate si condensava quello che Alberto Asor Rosa era stato per me: il maestro che mi aveva insegnato una strada per attraversare il bosco della letteratura italiana tra il Duecento e il Seicento, il metodo per percorrerla, gli strumenti per non tradirla. E, come un montanaro che non si limiti a indicarci un sentiero, a fornirci una mappa, ma stia attento anche a consigliarci le scarpe per percorrerlo senza rischi di spaesamento, mettendoci allo stesso tempo in guardia sul pericolo delle scorciatoie, Alberto Asor Rosa mi aveva indicato l’attenzione necessaria per mantenere vive le cose che contano.
A questo breve, intimo ritratto devo aggiungere, se non tutte le numerosissime pubblicazioni saggistiche di Asor Rosa a partire da Scrittori e popolo del 1965, l’immenso lavoro enciclopedico da lui svolto come curatore del progetto La Letteratura Italiana per l’editore Einaudi: tre sezioni, la prima di sei volumi di cui il terzo volume è diviso in due tomi; la seconda sezione composta di due volumi (di cui uno diviso in due tomi); la terza sezione comprende 4 volumi ed è tutta dedicata alle Opere della nostra letteratura. Ho religiosamente conservato l’opera completa, compresi i 4 volumi di indici. A questo monumentale progetto, sul quale Asor Rosa letteralmente vegliava, durato circa ventidue anni, dal 1977 al 2000, parteciparono storici della letteratura, filologi e critici di un’intera generazione.
A chiusura di queste poche righe dedicate al mio professore non voglio omettere il suo impegno politico come deputato del Partito comunista tra il 1979 e il 1980, la battaglia per il paesaggio della sua Maremma che lo ha visto impegnato sulle testate dei giornali fino a qualche tempo fa e infine i suoi libri di narrativa, su tutti, quello da me più amato, Storie di animali e altri viventi (Einaudi 2005). Sarei molto felice se almeno una briciola della sua energia lavorativa mi fosse destinata!