“La scrittura deve essere circolare”. Sono state diverse le lezioni che si sono concluse così. Con questa affermazione. Perentoria.
Quando ho letto che Alberto Asor Rosa non era più tra noi ho ripensato a quella frase. Che mi ha accompagnato sempre. Da allora. Da quando studente del secondo anno di Lettere, nel 1987, cominciai a seguire le lezioni di Letteratura italiana nella grande aula del piano terra della Sapienza. Dove il gran numero di frequentanti aveva suggerito di far tenere le sue lezioni, nonostante il Dipartimento di italianistica fosse al terzo piano. E’ lì, in quell’aula, che feci la sua conoscenza, diretta. Ascoltandolo ammirato.
Perché a prescindere dalle sue conoscenze sapeva dire. Con toni pacati e una voce che non regalava praticamente acuti. E poi un sorriso che mi sembrava il risultato di una specie di riuscita alchimia. Un po’ consapevolezza di quel che era e un po’ di compiacimento per quel che raccontava.
Già allora avevo l’abitudine di informarmi sulle persone con le quali avrei avuto in qualche modo a che fare. Lo feci tanto più con lui, che mi appariva un gigante tra i giganti. Negli anni Ottanta del Novecento, tanti colleghi, non solo del Dipartimento di italianistica.
Avevo letto che si era laureato proprio nell’Università nel quale potevo ascoltarlo con Natalino Sapegno. E che poi aveva collaborato a Quaderni rossi, Classe operaia, Laboratorio politico e Mondo Nuovo. Riviste che ne mostravano le convinzioni politiche, senza falsi pudori. Collaborazioni che lo avevano portato ad assumere la direzione di Contropiano, a partire dal 1968.
Una attività letteraria, quella di Asor Rosa, che si era coniugata con quella “sul campo”. Nel 1956, a seguito della rivoluzione ungherese, era stato tra i firmatari del Manifesto 101, con cui numerosi intellettuali deplorarono l’intervento sovietico. Nel 1965 nel saggio Scrittori e popolo criticò il filone populista presente nella letteratura italiana contemporanea arrivando a stigmatizzare il romanzo di Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita.
Mi aveva colpito che tra il 1979 e il 1980 fosse stato deputato del Partito Comunista Italiano. Finalmente un intellettuale che “si era sporcato le mani” con la politica. Quasi si fosse trattato di uno dei mandarini tratteggiati da Simone de Beauvoir, nell’omonimo romanzo del 1954. Ai miei occhi Asor Rosa era un po’ Henry Perron, uno dei protagonisti del romanzo. Anche questo me lo faceva sentire “immenso”. Sostanzialmente, “divino”.
In realtà Asor Rosa lo avevo conosciuto anche attraverso il racconto di una ex collega di francese, ai tempi in cui avevano insegnato al Liceo scientifico “Guido Castelnuovo” di via Barellai, a Roma. Avevo saputo dei suoi esordi nell’insegnamento, in una scuola superiore. Scuola superiore che agli inizi degli anni Sessanta aveva potuto contare su un corpo docente nel quale c’era anche Enzo Siciliano, oltre che su un Preside del calibro di Giambattista Salinari. Mia madre aveva un ottimo ricordo della scuola e di Asor Rosa.
“L’Odissea, La Divina Commedia e Guerra e pace”. Glielo ho sentito sostenere a lezione, quando decideva di regalarci dei viaggi immaginari del tempo, distaccandosi dal procedere del suo ragionamento su uno scrittore, oppure un fenomeno letterario, magari un secolo. Parlava di libri da leggere. Assolutamente. Lo ha ripetuto, più recentemente, nel 2017, intervenendo a Capalbio Libri.
Ma ancora più di qualsiasi altra cosa rimanevo incantato nel sentirlo parlare. Anzi, argomentare. Soprattutto di scrittura. Di tecnica della scrittura. Citando autori come si fosse trattato di amici. Citando autori che ai più risultavano “minori”. Ma solo, capivo, per una conoscenza approssimativa.
Argomentava di scrittura come se si fosse trattato di persone. Insomma esseri vitali. Ascoltandolo ho iniziato a capire cosa significasse scrivere. Davvero. Partendo non da una idea, ma da un progetto. Ascoltandolo mi è sembrato che descrivesse la costruzione di una cattedrale e non frasi. Periodi. Concatenati. Armoniosi. Circolari. Racconto breve, oppure romanzo, poco cambiava. “La scrittura deve essere circolare”. Indubitabilmente.
Non finirò mai di ringraziarlo per avermelo fatto capire.