La popular music è la musica più fruita del nostro tempo. Alcuni la definiscono “tutto ciò che non è musica colta” e, anche se secondo me è molto di più, la definizione ci può stare perché si concentra sulla capacità che ha questa materia di intercettare un sentire comune, di far sì che l’immaginario collettivo sia un elemento cardine del linguaggio con cui ci si sta esprimendo.

Gli studi su questa disciplina risultavano pionieristici a livello accademico una quarantina d’anni fa, quando già da qualche bel decennio i musicisti classici facevano un altro mestiere rispetto a quelli popular. Mestiere che aveva a che fare sempre con la stessa materia, sia chiaro, perché la musica è una, ma che – insomma – necessitava di una filologia differente, differenti capacità creative e che coinvolgeva diversi talenti nella padronanza unisona dell’ispirazione.

Nelle università e nelle accademie sono sempre pesati come macigni gli studi di Theodor W. Adorno sulla popular music, i primi dei quali già negli anni Trenta del Novecento, giudizi estremamente negativi che ne hanno minato per lungo tempo la credibilità, anche per l’autorevolezza dell’estensore. Nei conservatori italiani la popular music ha sempre avuto difficoltà a inserirsi, per varie ragioni, tutte opportunisticamente comprensibili: ruba la scena (dunque fondi pubblici), ha apparentemente bisogno di meno studio, meno disciplina. Apparentemente.

Facevano fatica a venir fuori e stabilizzarsi i dipartimenti di popular, così come i musicisti classici facevano fatica a concepire il jazz a livello accademico, anche se l’alone di raffinatezza di quest’ultimo e la consapevolezza che in certe versioni espressive del genere fosse indispensabile un alto livello di virtuosismo ne rendevano inattaccabile l’elitarismo. La popular no: “Di facile realizzazione e di facile ascolto”. Questa era la vulgata.

All’inizio del terzo millennio in campo accademico erano ancora pochissime le realtà sperimentali. Io conosco bene quella di Pescara, conservatorio pioniere, in cui il corso sperimentale fu avviato quasi vent’anni fa con la direzione di Enrico Perigozzo, poi passato ordinamentale sotto Massimo Magri (assieme a Frosinone, Trento, Cuneo e poi Parma) e sotto Alfonso Patriarca; fino a che oggi un musicista, direttore d’orchestra assolutamente crossover come Angelo Valori – e che ha seguito tutto il percorso in prima persona – insegna composizione pop/rock, quindi si occupa dell’aspetto creativo del pop riconosciuto dal Ministero. Ma di tempo ce n’è voluto troppo.

Il tempo però è galantuomo e gli studi su questa forma d’arte si sono resi autorevoli e molto diffusi e, con essi, l’esigenza di una consapevolezza storica e di una storicizzazione delle principali tappe del linguaggio. La storiografia viene sempre dopo la semiotica e la semiotica acquisisce autorevolezza con la credibilità accademica del linguaggio artistico espressivo.

Nei miei corsi di popular music, come riferimento storico mi sono sempre avvalso del lavoro di quello che forse è il più autorevole studioso in materia, cioè Franco Fabbri e in particolare del libro Around the clock (Utet, 2008). Più si va avanti e più escono strumenti didattici validissimi, come uno degli ultimi volumi in ordine di tempo, il Manuale di storia della popular music e del jazz, di Fabrizio Basciano (Volontè & Co., 2021).

Il volume di Basciano ha diversi punti di forza: anzitutto riesce ad aggiustare il tiro dopo lo sperimentalismo storiografico – per quanto validissimo ancora oggi – che lo ha preceduto; poi riesce a condurre uno sguardo sinottico che caratterizza il jazz per la sua “destinazione finale” (come la musica “per” film) e lo inserisce nella storia della popular music come genere “ambiguo, da un certo punto in poi della sua storia, per il suo continuo posizionarsi a perfetta metà strada fra ambiti musicali tanto distanti quanto, nel jazz, incredibilmente vicini tra loro, come la musica d’arte e la popular music. Il jazz, a ben vedere, possiede elementi di entrambi questi mondi musicali, quello pretenziosamente considerato ‘alto’ della musica d’arte e quello ingiustamente considerato basso della musica popular”.

Da questo punto di vista, il volume di Basciano diventa strumento utilissimo tanto per l’amatore che per l’accademico, assolutamente da consigliare per un corso che nei conservatori italiani voglia occuparsi di quella musica che non è musica classica ma, come si è detto, è molto di più.

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