La strana politica dei redditi della Melonieconomics sta producendo dei vincitori e dei perdenti. I vincitori di questa nuova lotteria fiscale sono i lavoratori dipendenti che hanno ottenuto aumenti mensili lordi che vanno dai 37 ai 41 euro. Questo naturalmente solo per 2023 e a carico del debito pubblico. Il mondo dei pensionati va, per così dire, a pareggio con aumenti nelle code basse e tagli in quelle alte, con un risparmio comunque notevole per le casse dello Stato.

I veri perdenti della manovra finanziaria del 2023 sono i dipendenti pubblici. Per il solo 2023, in vista della scadenza naturale dei contratti della Pa prevista per il 2024, la Premier ha previsto un incremento dello stipendio dell’1,5%. Questo incremento retributivo dovrebbe far fronte alla perdita di salario dovuta all’inflazione, che però è stata dell’11,5% se prendiamo in considerazione le variazioni del FOI, l’indice dei prezzi al consumo da novembre 2021 a novembre 2022. Diciamo che in un anno l’inflazione ha tagliato il 10% dei salari dei dipendenti pubblici.

L’intervento del governo è quindi del tutto insoddisfacente. Meloni ha fatto molto peggio di Draghi che per il 2021 ha aumentato gli stipendi dei dipendenti pubblici dello 0,8% con l’indennità di vacanza contrattuale. Un valore basso perché calcolato sul tasso di inflazione programmato, pari per il 2021 all’1,9 %. Se Meloni avesse applicato lo stesso criterio, il bonus inflazione per il 2023 avrebbe dovuto essere del 3,5%, metà del tasso di inflazione programmata per il 2023 che è del 7,1%, e del 2,1% per il 2024. I risparmi di spesa per il 2023, circa 3 miliardi, sono stati utilizzati altrove, ad esempio per la riduzione del cuneo fiscale dei lavoratori dipendenti. Un governo previdente ed equo avrebbe dovuto già stanziare questa somma a favore dei pubblici dipendenti, seguendo la semplice e ragionevole regola Draghi di anticipare l’indennità di vacanza contrattuale.

Non è chiaro perché il premier abbia voluto sacrificare, ed anzi umiliare, il pubblico impego con una proposta economica modestissima. C’erano invece molte buone ragioni per andare nella direzione opposta e cominciare un dialogo diverso con la Pubblica Amministrazione. In primo luogo, c’era da aspettarsi che il partito nazionalista e sovranista che guida la coalizione mostrasse più attenzione nei confronti dei pubblici dipendenti. In fondo, lo Stato non è una parola astratta ma opera attraverso i quattro milioni di suoi dipendenti che realizzano servizi vitali, o almeno ritenuti tali, per la società.

La destra sociale, un tempo, era fortemente animata da un giusto sentimento di valorizzazione dell’etica pubblica e dei suoi interpreti, i dipendenti pubblici. Pare però che questa spinta ideale si sia esaurita ed anche la destra nostrana si sia appiattita sulle posizioni pseudo-liberiste e anarcoidi dei suoi alleati. Anche per la premier Meloni lo Stato è il male assoluto da ridurre in tutti i modi come per Berlusconi, Salvini e company? Dai fatti sembrerebbe di sì, con buon pace dei pubblici dipendenti che l’hanno sostenuta e votata.

Ma c’è una ragione ancora più forte, legata alle vicende della pandemia. In questi due anni è innegabile che la Pa sia cambiata profondamente. La pandemia ha sconvolto l’organizzazione dei servizi pubblici più che quella di altri settori economici, ed ha portato all’introduzione in pochi mesi di cambiamenti quasi epocali che in circostanze normali avrebbero richiesto anni. I pubblici dipendenti si sono dati da fare per adattarsi velocemente alla nuova situazione, come per esempio in campo sanitario o scolastico. Si può dire che tutta la Pubblica Amministrazione abbia risposto in modo più che soddisfacente allo tsunami organizzativo e tecnologico provocato dagli effetti della pandemia. Certo, non tutto è andato per il verso giusto ma le eccezioni non sono la regola. Questo enorme sforzo collettivo andava probabilmente premiato, anche economicamente, e non certo penalizzato come la premier Meloni ed il suo ministro Giorgetti stanno proponendo.

Da ultimo, bisogna osservare che i conti della Pa non vanno male e sono in ordine dal punto di vista della gestione economica. In altre parole i soldi per venire incontro alle legittime esigenze dei pubblici dipendenti ci sono. Complice anche l’inflazione, le entrate pubbliche sono aumentate notevolmente. Questo è successo all’azienda Stato, ma anche a tutte le altre imprese private i cui ricavi, e profitti, sono stati notevolmente incrementati dalla lievitazione dei prezzi. C’è da scommettere poi che alla regolare scadenza dei contratti di categoria, i dipendenti privati chiederanno sostanziosi aumenti salariali, giustificati proprio dall’aumento dei ricavi. Nel caso del settore pubblico, per ragioni difficili da capire economicamente ma forse molto ovvie politicamente, le entrate aggiuntive non vengono usare per difendere i salari dei dipendenti ma piuttosto per altri scopi.

Il bilancio pubblico è usato, da troppo tempo ormai, come bancomat elettorale da parte dei governi di vari colori politici. Se questa grave anomalia gestionale poteva funzionare quando l’inflazione era molto bassa, ora diventa invece insostenibile. Prima di elargire bonus fiscali a destra e a manca, un governo responsabile dovrebbe pensare ai suoi dipendenti e alle loro legittime richieste. Se non si vuole premiare la produttività dei dipendenti pubblici, almeno bisognerebbe non farli impoverire dall’inflazione. In altre parole, è difficile capire perché si destinino svariati miliardi alla riduzione del cuneo fiscale di tutti i lavoratori, e non si usino queste risorse per i propri lavoratori con un’inflazione galoppante. Un dirigente d’impresa che si comporta in questo modo irrazionale verrebbe subito licenziato.

Cosa succederà tra qualche mese quando i dipendenti pubblici realizzeranno l’assurdo taglio delle loro retribuzioni, ancora più rilevante se l’inflazione sarà molto elevata? Non credo che aspetteranno la scadenza del contratto e poi l’indennità di vacanza contrattuale che arriverà nel lontano 2025. Le proteste e le contestazioni sindacali arriveranno molto prima e saranno anche dure, a cominciare dalla finanziaria 2024. Allora la destra comincerà a dire che non ci sono risorse e che le richieste dei lavoratori sono irresponsabili. Si darà la colpa ai cattivi sindacalisti che non capiscono la difficoltà finanziarie del momento, o forse ai cattivi maestri che istillano utopie economiche sovversive come quella di adeguare gli stipendi all’inflazione.

La verità invece è molto più banale: la responsabilità delle prossime e prevedibili tensioni sociali sarà solo dei cattivi politici che ancora una volta, come già Berlusconi nel 2010, vogliono far ricadere il peso della loro irresponsabilità fiscale sui pubblici dipendenti. La guerra in Ucraina e l’inflazione, che pur sono rilevanti, non possono essere sempre portate a giustificare il taglio dei salari e degli stipendi dei pubblici dipendenti operato dal governo Meloni, come sostiene con cinica e maldestra furbizia il ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo.

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