Telefonata di stamattina di un giovane collega: “Dammi un consiglio, non come medico, né sindacalista, ma come una mamma (è amico di scuola di mio figlio). Pensi che cambierà qualcosa nel nostro lavoro di medici di famiglia? Perché io non ce la faccio più. Sto pensando di dare le dimissioni, ma sto malissimo. Ho investito tanto sulla professione, ma a queste condizioni non ci sto più“.
Un tempo mi sarei stupita di una conversazione di questo tipo. Un medico che rescinde il contratto con il Ssn? Impensabile. Ora non più. Sono un medico tutor che accoglie nel suo studio tanti giovani colleghi che fanno tirocinio per il corso di formazione in medicina generale. Molti di loro neanche lo completano il corso. “Se questo è il lavoro che ci aspetta anche no, meglio il precariato”.
Siamo di fronte ad una crisi vocazionale, come hanno titolato in tanti? Direi di no: sono tanti gli studenti che intraprendono o vorrebbero intraprendere la carriera di medico e di medico di famiglia in particolare. Ma è la figura del medico di “famiglia” attuale, slegata rispetto dal percorso formativo intrapreso, percorso che dura all’incirca 10 anni e che è costato tempo, denaro, sacrifici, che viene rifiutata.
Perché siamo dei clinici, non degli amministrativi, come ci hanno ridotti nel tempo, con un demansionamento senza precedenti. Siamo stanchi di commissioni di appropriatezza Asl che ci giudicano, per giustificare la loro esistenza in vita, per quante pasticche per il mal di stomaco abbiamo prescritto e non per quanti ricoveri ospedalieri abbiamo evitato. Siamo stanchi di certificati Inps che dobbiamo redigere per malattie non obbiettivabili, ma solo sul narrato del paziente a cui viene negata la facoltà di autocertificarsi i primi giorni di malattia come avviene in molti paesi di Europa.
Non ne possiamo più di certificazioni Inail e di certificazioni in generale, basti pensare ai certificati per attività sportiva non agonistica non più obbligatori dal 2013, ma che vengono continuamente richiesti. E che dire del rinnovo dei piani terapeutici per farmaci di particolare impiego, per conto terzi, su piattaforme digitali, anche diverse da regione a regione e che spesso non comunicano con il sistema tessera sanitaria, solo per fare alcuni esempi.
Viviamo in una babele informatica ed in tutto questo il Covid, malattie nuove e malattie vecchie che non sono miracolosamente sparite, anzi. Malattie che cerchiamo di trattare al meglio delle nostre possibilità, considerata la spaventosa contrazione dell’offerta sanitaria pubblica su tutto il territorio nazionale. Eravamo fino a poco tempo fa, insieme alle postazioni di continuità assistenziale, l’unico presidio capillare e facilmente raggiungibile del Ssn; oggi più di tre milioni di cittadini sono senza medico di famiglia e moltissime postazioni di guardia medica sono state chiuse. I coraggiosi che rimangono in servizio sono in burn out, accusati di essere causa del sovraffollamento dei pronto soccorsi, senza dire dei tagli decennali alle strutture e al personale. I pronto soccorso sono affollati semplicemente perché ce ne sono pochi e con poco personale: sono meno del 60% rispetto a quelli di 10 anni fa.
I giovani medici di oggi, giustamente, hanno un approccio più anglosassone alla professione. Si spogliano dei panni del missionario di cui si sono ammantati i medici della mia generazione (o che ci hanno costretto ad indossare come camice di forza), rivendicando ruolo professionale, giusta retribuzione, tempo per la vita privata e non sentendosi minimamente in colpa, giustamente dico io, se non rispondono al telefono alle 22 o di sabato e di domenica, quando sono in funzione, o ci dovrebbero essere, servizi alternativi in sostituzione. In barba a chi ha detto in tv che un medico di famiglia che non risponde di sera deve essere licenziato.
Oggi si dibatte tanto sul ruolo giuridico dei medici di medicina generale: convenzionati o dipendenti? Come se dalla tipologia di contratto dipendesse la ristrutturazione della medicina territoriale. Ristrutturazione che certo non passa dalle Case di Comunità, realtà che Report ha divulgato al grande pubblico ma che gli addetti ai lavori conoscono molto bene. Si stanno impiegando i soldi del Pnrr per un restyling edilizio privo di contenuti e di risorse umane.
Nel tempo siamo passati dai distretti sociosanitari, alle case della salute, già bocciate da Agenas nel 2012, alle attuali case di comunità, con un netto peggioramento quantitativo e qualitativo delle prestazioni erogate. La privatizzazione del sistema sanità è ormai dilagante. A quando le piazze piene di cittadini a difesa di un servizio sanitario equo, universale e pubblico come in altri paesi?
Noi ci crediamo e per questo resistiamo. Ma per quanto tempo ancora?