Chi fino al 2020 arrivava a fine mese con pochi margini ma senza eccessive rinunce ora si ritrova spesso alle soglie della povertà. È il frutto di un trentennio di stagnazione dei salari a cui si è sommata la crisi da Covid seguita dall'esplosione dei prezzi dell'energia e, a cascata, degli alimentari e dei servizi. Ecco i dati e le indagini di Nomisma e delle Acli
Prima è arrivata la pandemia. Poi, mentre chi era finito gambe all’aria cercava di rimettersi in piedi e ripartire, la Russia ha invaso l’Ucraina accelerando la corsa dell’inflazione energetica e non. Risultato: un altro colpo ai bilanci di un ceto medio che fino al 2020 arrivava a fine mese con pochi margini ma senza eccessive rinunce. E che ora si ritrova spesso alle soglie della povertà. A dirlo sono in numeri: solo per il gas, nell’ultimo anno una famiglia tipo con contratto di maggior tutela ha speso secondo l’Authority per l’energia 1.740 euro, il 64% in più rispetto ai 12 mesi precedenti. Nonostante gli aiuti statali. Vuol dire che solo per scaldare casa e cucinare se n’è andato ben più di uno stipendio. In Italia infatti, stando all’ultima ricognizione dell’Inps aggiornata a dicembre, il reddito medio dei dipendenti nel 2021 si è aggirato intorno ai 1700 euro lordi per 13 mensilità che crollano a 750 se il lavoro è a tempo determinato e quindi discontinuo. I parasubordinati (cococo, lavoratori occasionali) sono arrivati a poco più di 1000 euro e i commercianti a meno di 1.600.
Gli stipendi ristagnano e i prezzi salgono – È il frutto di un trentennio di stagnazione dei salari, innescata dalla corsa alla manodopera a basso costo e basse qualifiche per competere sul prezzo invece che sulla qualità. Le tabelle dell’Ocse di cui si è molto parlato lo scorso anno sono la dimostrazione plastica delle conseguenze di quella strategia industriale: nel 2003 lo stipendio medio italiano (a parità di potere di acquisto per tener conto dell’andamento dell’inflazione) era inferiore che nel 1991. Il valore massimo è stato raggiunto nel 2010, prima che gli effetti della crisi dei mutui subprime si riverberassero sulle economie europee. Nel 2021, l’anno del rimbalzo del pil dopo la recessione da Covid, il valore del 1991 è stato superato di soli 106 euro. Intanto però i costi vivi da sostenere per arrivare alla quarta settimana sono lievitati. Fissando a 100 l’indice nazionale dei prezzi nel 2015, le serie storiche Istat mostrano che a dicembre 2021 era salito a 106,6 e a novembre 2022 addirittura a 118. Il mese scorso alimentari e bevande costavano il 13,6% in più rispetto a un anno prima, mentre per abitazione, acqua, elettricità e combustibili si dovuto spendere addirittura il 56,3% in più e per mobili, articoli e servizi per la casa il 7,6% in più.
Impossibile affrontare una spesa imprevista – Le conseguenze per il ceto medio? Secondo un recente rapporto di Nomisma il 65% delle famiglie intervistate lo scorso giugno – quindi già prima del picco dei rincari energetici – ha riferito che i soldi percepiti ogni mese erano “inadeguati” per far fronte alle necessità primarie. La percentuale sale al 68% per le famiglie con figli. Sei su 10 nel 2022 non sono riuscite a risparmiare o lo hanno fatto meno rispetto all’anno prima. E tre su 10 hanno riferito che avrebbero dovuto ridurre i consumi. Una spesa imprevista di 5mila euro – per l’apparecchio ai denti per il bambino, un guasto all’auto, un incidente – farebbe deragliare quasi metà del campione. I problemi si moltiplicano nelle cosiddette “famiglie sandwich“, quelle con anziani e minori di cui prendersi cura: in quei nuclei è più frequente che ci sia almeno una persona occupata in modo discontinuo o disoccupata, per cui gli introiti mensili si assottigliano.
In tre anni persi anche più di 10mila euro – Alcune categorie pagano dunque più di altre. Un’indagine dell’Osservatorio nazionale Acli su redditi e famiglie, pubblicata a metà dicembre, ha passato in rassegna le dichiarazioni fiscali 2019, 2020 e 2021 compilate da 974mila persone presso i Caf Acli per indagare come è cambiata la loro condizione dopo il Covid. Nel triennio, due terzi dei contribuenti hanno visto il proprio reddito diminuire. Il 50% ha perso fino a 410 euro, il 25% fino a 1.200, ma ci sono anche 35mila “hard losers” che in media hanno visto evaporare 8.200 euro. E il 25% di loro ha subito una contrazione superiore ai 10mila euro. E l’aspetto più preoccupante è che il 70,3% di loro fa parte del primo quintile della distribuzione dei redditi, quello in cui ricadono i più poveri: lavoratori a basso reddito che a causa della crisi sanitaria ed economica sono stati licenziati o hanno lavorato meno del solito. Il conto più salato è arrivato, stando all’analisi, alle donne con meno di 40 anni e con almeno un figlio.
Dalla manovra pochi spiccioli – La manovra del governo Meloni cambia poco per queste famiglie. Il rinnovo degli aiuti contro il caro energia scalfisce solo di poco i rincari delle bollette, mentre l’ampliamento del cosiddetto bonus sociale riguarda chi ha Isee fino a 15mila euro lasciando fuori il ceto medio. Il taglio del 3% cuneo fiscale lascerà nelle tasche di un lavoratore con 25mila euro di reddito lordo circa 493 euro in più, cioè 41 euro al mese, secondo calcoli di De Fusco Labour & Legale per Il Sole 24 Ore. Oltre i 25mila euro e fino a a 35mila lo sgravio resta al 2% (come durante il governo Draghi): vale tra 30 e 32 euro al mese. Poi si azzera. Per capire quanto possono valere quei soldi su un bilancio familiare, basti dire che nel 2021 una famiglia in cui la “persona di riferimento” fa l’operaio ha speso in media stando ai dati Istat più di 2200 euro al mese, quella di un quadro o impiegato più di 3.100. Solo per il cibo se ne vanno più di 460 euro al mese, per i trasporti 240. Per chi ha bambini, ovviamente, far quadrare i conti è ancora più complicato. Per loro che cosa c’è? In pratica solo l’Iva ridotta sui prodotti per la prima infanzia. Perché la maggiorazione dell’assegno unico scatta a partire dal terzo figlio. Un “lusso” per pochi.