L’importanza della biodiversità è un concetto che è diventato comune solo negli ultimi decenni. Siamo cresciuti dando per scontate erbe spontanee, insetti o parassiti. Abbiamo creato una gerarchia ideale di piante, animali, persone; una gerarchia che categorizza l’esistente, dividendo la natura in ciò che è utile e ciò che è inutile (per l’uomo chiaramente). Abbiamo creato un sistema di pensiero che vede la natura come un qualcosa al servizio di noi sapiens, un qualcosa da essere domato, recintato, controllato. Negli ultimi decenni però, ci stiamo rendendo conto, pian piano, che la biodiversità e le simbiosi presenti in natura non sono sue debolezze, bensì un suo inconfutabile punto di forza, dal quale dovremmo prendere esempio.

Lo scorso 19 dicembre, a Montreal in Canada, si è conclusa la COP15: la conferenza delle parti delle Nazioni Unite che ha come focus centrale il tema della biodiversità.

Nonostante il nome simile alla COP27 (che abbiamo seguito il mese scorso), questa conferenza riunisce i rappresentanti dei governi mondiali e le altre componenti della società con lo scopo di proporre soluzioni e misure in materia di conservazione e tutela delle specie e aree naturali, in risposta alla crisi ecologica che si sta drammaticamente sovrapponendo a quella climatica.

Global Biodiversity Fund

Come per la COP27 e il tanto dibattuto “Loss & Damage Fund”, anche questa conferenza ha raccolto consensi verso la creazione di un “Global Biodiversity Fund” che dovrebbe essere stabilito entro il 2023 per diventare operativo nel 2025 e fornire circa 100 miliardi di dollari all’anno per obiettivi di conservazione e riproduzione della biodiversità.

Se i Paesi del nord globale procederanno con i versamenti a questo fondo rimane ancora da vedere, ma il consenso è chiaro: chi rompe paga, anche quando si parla di natura.
La ridirezione di investimenti al momento impiegati in attività ad alto danno ecologico (allevamenti su larga scala, territori di pesca, fertilizzanti, deforestazione), stimati tra i 500 e i 1000 miliardi di dollari, è uno dei metodi suggeriti per costruire questo Fondo Biodiversità Globale. Eppure i Paesi del nord globale sono stati, ancora una volta, esitanti e reticenti.
Alcuni Paesi del sud globale, tra cui Repubblica Democratica del Congo, Brasile e Malesia, si sono dichiarati insoddisfatti, soprattutto per la mancanza di trasparenza di questo fondo nella forma attuale, presentata dalla Cina.

Una apparente vittoria da tenere d’occhio: Global Biodiversity Framework e 30×30

Sembra che il risultato di queste due settimane di negoziati abbia dato vita ad un momento spartiacque: è stato stabilito, infatti, un Global Biodiversity Framework (GBF) nel quale sono racchiuse istruzioni e obiettivi su vari fronti quali conservazione, inquinamento, mitigazione, deforestazione e finanziamenti. Ora non resta che attendere l’effettiva attuazione e fattibilità di quanto proposto.

Tra le varie mozioni approvate con entusiasmo e quasi l’unanimità dei presenti, vi è anche quella del “30×30”, ovvero la proposta di convertire entro il 2030 ben il 30% del suolo e degli oceani in aree protette. Apparentemente potrebbe sembrare una svolta in materia di protezione e tutela dell’ambiente, ma la mancanza di linee guide specifiche e di chiarezza circa le modalità e i termini di tale conversione potrebbe lasciar spazio a conseguenze tutt’altro che rivoluzionarie e positive.

Tale accordo per Extinction Rebellion è infatti una parte controversa del GBF, poiché potrebbe porre le basi per il più grande furto di terra della storia ai danni di chi ha contribuito di meno alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità. L’industria della conservazione, infatti, gestita quasi nella totalità dei casi da ong del nord globale (talvolta in partnership con multinazionali che finanziano progetti di conservazione come strategia di greenwashing), finora è stata spesso protagonista di land grabbing e generatrice di conflitti socio-ambientali.

Grazie alla moral suasion di ong come Survival International, l’obiettivo del 30% di aree protette nella versione definitiva approvata dalla Cop cita il riconoscimento e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni. Risulta fondamentale che l’accordo GBF per il 30% venga monitorato nella sua applicazione affinché tenga fede alla promessa di rispettare i diritti dei popoli indigeni, altrimenti potrebbe addirittura trasformare la vita dei popoli indigeni in un incubo, con sfratti massicci di popolazioni dalle loro terre ancestrali e altri abusi.

Ma non basta, è necessario infatti lavorare per cambiare il concetto stesso di conservazione, riconoscendo ancora una volta, come la biodiversità sia ricchezza. E come i popoli indigeni possano essere un esempio, per noi del nord globale, di come essere parte di tale biodiversità, invece che esserne alieni e distruttori. Infatti l’impostazione della conservazione “bianca” e la presunzione dei Paesi del nord globale di sapere meglio di chiunque altro come si debba agire, dovrebbe essere sostituita da un dialogo e una collaborazione tra Paesi e popoli. Poiché sarà solamente accettando la biodiversità e la ricchezza di visioni che caratterizzano l’umanità nelle sue più diverse espressioni culturali, che realmente riusciremo ad avere un buon punto da cui iniziare.

Secondariamente, la sovrapposizione fallace dei concetti di “biodiversità” e “protezione di aree” ha generato dubbi nella realizzazione di queste aree protette che, come già anticipato, potrebbero rischiare la sottrazione di territori alle popolazioni indigene che già sono le maggiori protettrici dei sistemi naturali che le ospitano, come già accade nell’Africa Subsahariana. Il riconoscimento e la titolazione delle terre indigene, dovrebbe essere infatti priorità assoluta e dovrebbero essere inserite ufficialmente all’interno del 30%, aspetto che è stato approfondito in maniera marginale ed astratta.

Inoltre un altro punto critico è sicuramente la menzione delle Nature Based Solutions (soluzioni basate sulla natura), tra le quali spicca il sistema di compensazione dei crediti di carbonio (carbon offset). Tale sistema permette alle multinazionali ed aziende inquinanti di acquistare dagli enti di gestione di conservazione e protezione degli spazi naturali “crediti di carbonio”, equivalenti alla quantità di anidride carbonica assorbita dagli alberi presenti sull’area, compensando così (senza effettivamente cambiare nulla) le proprie emissioni.

La monetizzazione degli spazi naturali, a favore ancora una volta di coloro che danneggiano e sfruttano il pianeta potrebbe essere dunque una pericolosa conseguenza, che va quindi monitorata; le imprese che usano questo tipo di meccanismi andrebbero esposte pubblicamente. Fintanto che le azioni delle industrie inquinanti saranno dei trucchi per ovviare al problema e non cercare reali ed effettive soluzioni, e gli Stati continueranno ad appoggiarle, le difficoltà rimarranno innumerevoli.

Poca concretezza, vaghezza e molte chiacchiere: la strada è ancora lunga

Un’altra macchia di questo summit è stata indubbiamente l’assenza degli Stati Uniti: sede legale di gran parte delle aziende fossili e industriali che operano nelle aree più vulnerabili del pianeta, a spese degli ecosistemi che le circondano. Nonostante la mancanza della superpotenza, i 196 stati partecipanti sono comunque riusciti a ottenere compromessi importanti, seppur non perfetti. Una grave falla è ancora una volta l’ambiguità di molti degli obiettivi posti, spesso mancanti di un vero target quantificabile o posti con eccessiva vaghezza e senza una roadmap definita. Attivisti e ambientalisti segnalano inoltre, anche la mancanza di un obiettivo quantificabile per limitare la frequenza delle estinzioni prima del 2050.

In generale, dunque, gli obiettivi che emergono dal documento finale, seppur chiari, sono mancanti ancora una volta di progetti concreti per realizzarli. Il grande timore è che queste dinamiche diventino, come per COP27, un altro modo per ritardare e posticipare azioni efficaci su larga scala.

Riconoscere solamente l’importanza della biodiversità dunque, non è più sufficiente.
Ciò che realmente sarebbe necessario, è disporre di soluzioni concrete, che vengano messe in atto in forma immediata da parte degli Stati, nel rispetto però dei diritti umani e della biodiversità culturale, senza una rigida gerarchia che divida sapiens e natura.

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