Le ho detto che doveva calmarsi, ma non è servito. Mi sono girata di spalle per chiedere l’intervento delle guardie giurate e ho sentito che mi tirava i capelli, così forte che mi ha provocato un colpo al collo. A quel punto ho provato la sensazione più brutta in vita mia: l’istinto del fare del male per difendermi”. Ogni anno 112mila infermiere subiscono attacchi di violenza sul posto di lavoro. Per circa 34mila si tratta di aggressioni fisiche. Lo dicono i dati Fnopi, la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche. Soprattutto donne e soprattutto giovani: questi sono i bersagli preferiti.

Un’infermiera di Napoli (chiede di restare anonima) ricorda così il giorno in cui ha capito che non ce la faceva più. Pronto soccorso affollato, tardo pomeriggio: le persone in attesa dalla mattina e il personale medico-sanitario in affanno dietro a richieste incessanti e continue minacce. A un certo punto, il peggio. “Una donna chiedeva un intervento tempestivo per la madre, sostenendo che si trovasse in codice rosso nonostante fosse già stato accertato con evidenza un bianco. Ha forzato la porta automatica che divideva noi infermiere da chi era in attesa, con le mani”. È entrata, ha alzato la voce: “E mi ha aggredita. Mi sono trovata a tenerle i polsi perché mi togliesse le mani di dosso. È stato necessario l’intervento della polizia e io sono rimasta a casa un mese e mezzo per infortunio, a causa del colpo al collo”.

LA MINACCIA COL COLTELLO – Un po’ di tempo prima, sempre in Pronto soccorso: “Il figlio di un paziente venne verso di noi per picchiarci. Io chiusi la porta, lui la sfondò: mi è caduta addosso colpendomi il braccio. Sanguinavo, ma neanche me ne ero accorta dallo spavento”. Anche in quel caso, un periodo di recupero a casa e poi il rientro. E poi un’altra sera, quando un uomo forzò – ancora – la porta e si puntò un coltello alla gola: “Di quelli doppi, con la lama zigrinata. Mi guardò dicendomi ‘che dobbiamo fare?’ Gli dissi che stava esagerando”. Ma cosa aveva? “Il mal di denti”. Un altro ancora, in un moto di rabbia, ha dato un pugno al vetro del triage e l’ha spaccato in mille pezzi: sono finiti tutti su una sua collega. “Non ci ho visto più e ho alzato la voce anche io. Con il tempo ho capito che non potevo andare avanti perché ero diventata insofferente e la mia soglia di tolleranza continuava ad abbassarsi. Avevo smesso di sorridere e di essere felice del mio lavoro. Il mio compito era rassicurare le persone e invece mi innervosivo per ogni parola. Non ero più io”.

Ha chiesto il trasferimento in un altro reparto: “Ma per me è stato quasi un lutto. Perché non sono riuscita a resistere e perché ho dovuto lasciare un’area che rimane nel mio cuore – l’urgenza – e tutte le persone che lavoravano con me. Si era creata una sintonia molto forte”. Ora? “Ora sono preoccupata per una mia collega: finito il turno esce da sola per tornare alla macchina. Lo facevamo sempre insieme per essere più sicure”.

I DATI, IL BORNOUT E LE CONSEGUENZE FISICHE – Dopo il Covid, le aggressioni al personale sanitario proseguono – e anzi, stando alle testimonianze raccolte – peggiorano. A subirle sono spesso le donne. Secondo il Conto annuale Igop – Ragioneria generale dello Stato – sono oltre 442.000 quelle che lavorano con contratto a tempo indeterminato nel Servizio sanitario nazionale: quasi il 69% del personale complessivo. Lo ha sottolineato la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. La categoria che registra il dato più alto di violenza sulle donne è proprio quella degli infermieri, considerato che il 78% del personale è femminile. Ci sono poi i dati sommersi, che la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche ha cercato di ricostruire con il contributo di otto università nella ricerca Cease-It (Violence Against Nurses in the Work Place). Il 32,3% degli infermieri (quasi 130mila persone) dichiara di aver subito un episodio di violenza verbale e/o fisica negli ultimi 12 mesi. Per quanto riguarda le donne, ogni anno ne sono colpite in 112mila e per quasi 34mila di loro si tratta di violenza fisica. Contribuisce a peggiorare la situazione la carenza di personale: un’assistenza ritenuta efficiente (con la riduzione del rischio di mortalità fino al 30%) si ha con un rapporto infermiere-paziente di 1 a 6. Ad oggi è 1 a 12.

Come ha chiarito la presidente Fnopi, Barbara Mangiacavalli, a livello globale le conseguenze sono per il 32% escoriazioni, abrasioni, fratture e lesioni dei nervi periferici. Nei casi estremi si arriva all’invalidità. La principale conseguenza psicologica è invece il burnout, che colpisce il 10,8% degli infermieri vittime di attacchi. In prevalenza verbali, come evidenzia un’altra infermiera (anche lei richiede l’anonimato): “Sono quotidiani. ‘Ti aspetto fuori’, ‘così come sei entrata devi uscire’, e così via. Ti fanno capire che ti osservano e sanno i tuoi movimenti, anche se tu li conosci poco. Finito il turno, per raggiungere l’auto dobbiamo per forza fare un pezzo a piedi. Loro puntano su quello”. ‘Loro’ sono i parenti dei pazienti o i pazienti stessi. Ricorda il Pronto soccorso distrutto, una mattina poco prima del lockdown: “In segno di protesta spaccarono tutto quello che trovarono. Le aste delle tende, le sedie, i vetri. Usarono ogni oggetto possibile, a cominciare dagli estintori. Arrivai e fu come vedere casa mia lasciata sottosopra dai ladri”. E dopo la pandemia? “Siamo diventati i cattivi che tengono distanti le famiglie per via delle restrizioni. Io ho visto un netto peggioramento nella tensione verso di noi, con una maggiore carica al momento del triage se vedono donne”.

IL CASO DELLE OSTETRICHE – Non va meglio in ostetricia: “’Mia moglie non ce la fa più, o le fai il cesareo o ti denuncio’. Ce lo dicono quasi tutti i giorni”, spiega un’ostetrica che lavora in Sardegna. “Ma spesso non ci sono indicazioni cliniche in questo senso. Anzi, si tratta di un procedimento che comporta dei rischi e che deve essere svolto il meno possibile, lo dicono le direttive europee”. E invece? “Ci sono molte spinte a eseguirlo anche quando non è necessario, con minacce. Servirebbe più informazione sul percorso che porta al parto e sul travaglio stesso: può durare molte ore e non tutti lo sanno”. Anche in questo settore c’è un problema di attesa: “L’idea principale è che la partoriente debba essere vista subito. Ma non è sempre così: anche nel nostro ambito ci sono diversi codici con diversi gradi di urgenza. A differenza degli altri casi, però, le aggressioni verbali che riceviamo vengono spesso derubricate come il risultato di un’alterazione momentanea di chi le compie, dovuta alla particolare circostanza emotiva che sta vivendo, cioè la nascita di un figlio”. Anche lei però, come le colleghe infermiere, ricorda atti di prevaricazione: “Il marito di una paziente portò carabinieri e avvocato in reparto”. La Società italiana di scienze ostetrico ginecologiche neonatali (Syrio) ha condotto un sondaggio su un campione di 270 ostetriche: il fenomeno delle aggressioni è presente nel 75% dei casi. Per la grande maggioranza sono insulti (80%) e minacce (67%). I contesti principali sono la sala parto (56%), l’unità operativa Ostetricia (44%) e il Pronto soccorso ostetrico-ginecologico (35%). “Io credo che questo lavoro vada fatto per vocazione. Ma se mia figlia o mia nipote mi dicessero di volerlo scegliere, cercherei di dissuaderle. È difficile lavorare se i primi numeri che hai in rubrica sono il tuo assicuratore e il tuo avvocato”.

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