I prigionieri di coscienza egiziani, le proteste in Iran, le oltre cento uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito israeliano e i mondiali di calcio in Qatar sono tra i principali temi, per quanto riguarda i diritti rivendicati e più spesso drammaticamente violati, di quest’anno in Medio Oriente e Africa del Nord.

Di Israele ho scritto di recente, sottolineando come questo sia stato l’anno peggiore, dal 2005, per il numero di palestinesi uccisi. Un anno che si è concluso, sempre che nei prossimi giorni non accadano ulteriori fatti gravi, con l’espulsione di Salah Hammouri, che il 18 dicembre è stato imbarcato a forza su un volo diretto a Parigi.

Hammouri, difensore dei diritti umani franco-palestinese, era stato già sottoposto a detenzione amministrativa solo per il suo incessante impegno nella difesa dei diritti dei palestinesi e nella denuncia del sistema di apartheid praticato dalle autorità israeliane.

Il provvedimento di espulsione, che ha stabilito un pericoloso precedente, si è basato sulla norma che autorizza il ministero dell’Interno israeliano a espellere in modo permanente i “residenti” (lo status attribuito alla maggior parte dei palestinesi di Gerusalemme Est occupata) qualora rompano il vincolo di fedeltà con lo stato d’Israele: una norma palesemente contraria al diritto internazionale, giacché non si vede come un cittadino di un popolo occupato debba essere fedele alla potenza occupante.

In Iran, le proteste di massa scoppiate in tutto il paese dopo la morte sotto tortura della 22enne Mahsa Amini, “colpevole” di non aver indossato correttamente il velo, stanno subendo una repressione violentissima. I morti ormai sono quasi 500 e uno su 10 era un minorenne: non solo meno che diciottenni, ma anche un bambino di due anni e una bambina di sei.

Alla repressione in piazza si è affiancata da settimane quella “giudiziaria”, per mezzo di processi frettolosi e iniqui seguiti da impiccagioni, già due (il numero potrebbe essere salito al momento della pubblicazione di questo post). Tra persone condannate a morte, imputati processati per reati capitali e altri indagati per reati capitali, a rischiare l’esecuzione sono quasi una trentina di manifestanti. Gli arresti sono arrivati a quasi 20mila.

Sulla sponda opposta del Golfo Persico, una settimana fa si sono conclusi i Mondiali di Qatar 2022. Terminati come erano iniziati: con una conferenza stampa del presidente della Fifa, Gianni Infantino, che ha esaltato gli organizzatori, stabilito il primato del divertimento dei tifosi sul rispetto dei diritti umani e affermato che, rispetto alla violazione di questi ultimi, non è successo praticamente niente.

I lavoratori migranti cui non è successo niente, o meglio quelli sopravvissuti alla costruzione degli otto stadi, ora li stanno smontando, rimpicciolendo, trasformando in altro. Sempre a rischio di sfruttamento estremo. Le poche riforme introdotte negli ultimi anni hanno cambiato assai poco la situazione. Resta inevasa la richiesta di Amnesty International alla Fifa affinché istituisca un fondo di 440 milioni di dollari (briciole, rispetto ai sette miliardi e mezzo di ricavi dai Mondiali) per risarcire i lavoratori migranti che hanno subito violazioni dei diritti umani e le famiglie di quelli morti.

A Mondiali in corso, è arrivata la risposta a una domanda che le organizzazioni per i diritti umani si facevano da anni: perché di queste cose non si è mai parlato? Risposta: perché c’erano persone, a Bruxelles, pagate per non parlarne e per promuovere una narrazione del tutto irreale della situazione dei diritti in Qatar.

Chiudo questo anno e questo post (quelli precedenti sono qui) con le storie egiziane di Alaa Abd el-Fattah e di Patrick Zaki.

Il “Gramsci del Cairo”, col suo ostinato sciopero della fame durato oltre 200 giorni e quello della sete di oltre 10 giorni, ha rischiato di rovinare la reputazione del presidente egiziano al-Sisi, tronfio di orgoglio per aver ospitato la Cop-27. Con le cattive, Alaa è stato costretto a interrompere lo sciopero della fame. Resta in carcere, a scontare una condanna orwelliana: cinque anni per “diffusione di notizie false”, per aver detto il vero.

Altrettanto orwelliano è il processo cui è sottoposto Patrick Zaki. Lo studente dell’Università di Bologna, scarcerato poco più di un anno fa dopo 22 durissimi mesi di detenzione preventiva, è sotto processo per lo stesso “reato” di Alaa: “diffusione di notizie false” per aver denunciato la discriminazione subita dalla minoranza religiosa dei cristiani copti. A fine febbraio si terrà l’ennesima udienza, quando Patrick sarà ampiamente entrato nel terzo anno della sua odissea giudiziaria.

A lui, ad Alaa, alle donne iraniane, ai prigionieri palestinesi, algerini, marocchini, tunisini, emiratini, sauditi, ai curdi, agli yemeniti, ai siriani, ai libici l’augurio di un anno opposto a quello che sta terminando.

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