“Il fenomeno è in crescita e con esso le denunce. È cambiata l’ottica sotto cui guardiamo questi casi: in passato si tendeva a pensare che le aggressioni facessero parte del nostro mestiere. Le segnalazioni arrivavano solo quando si manifestavano i danni più evidenti”. Carmelo Gagliano è consigliere del comitato centrale di Fnopi, la Federazione nazionale Ordini Professioni Infermieristiche. Descrive così la violenza subita dal personale sanitario. Soprattutto infermieristico, composto per oltre il 75% da donne.
Quali sono i soggetti più colpiti?
Secondo i dati che abbiamo raccolto le vittime sono soprattutto le giovani. Al contrario, l’età più matura induce una maggiore protezione. Ed è riduttivo pensare che sia colpito solo il personale impegnato nel pronto soccorso: la violenza c’è anche nei reparti o negli ambulatori. Oltre a essere un danno per le persone coinvolte, come è ovvio, è anche un costo. Parliamo di una cifra che va dagli 11 ai 30 milioni di euro all’anno. Soldi impiegati per curare gli operatori colpiti, tamponare le assenze sul posto di lavoro, affrontare la sequela di trauma che rimane. Se si verificano oltre 120mila attacchi all’anno e l’infermiere – come è giusto e inevitabile che sia – si ferma 4 o 5 giorni, ne ricaviamo un dato economico di forte impatto. E con gli stessi soldi potremmo invece fare formazione per cercare di prevenire questo stesso problema.
Cosa serve, quindi, per migliorare la situazione?
Serve proprio questo: incentivare e diffondere la formazione verso questi episodi di violenza. Prima di tutto offrire strumenti utili a identificare i comportamenti pericolosi, che potrebbero sfociare in aggressione. E poi sarebbe importante lavorare sull’orientamento dei cittadini al loro arrivo nelle strutture ospedaliere e in particolare sull’accoglienza. Intercettare la domanda e consigliare i percorsi giusti: questo fa sentire il paziente preso in considerazione e abbassa il rischio di generare aggressività. Ma spesso è molto difficile perché il personale sanitario è travolto da richieste.
Quali sono invece i fattori che aumentano la tensione?
Il tempo di attesa nei servizi: si aspetta troppo. Questo, insieme a visite più brevi, peggiora il clima di lavoro e lo rende molto complesso. Il pronto soccorso è spesso preso d’assalto perché mancano alternative: abbiamo riscontrato fra il 30 e il 35% di accessi impropri. Le persone chiedono risposte che lì faticano a trovare, perché spesso il problema non è esclusivamente sanitario, ma di carattere sociale. Per esempio, mancano soluzioni che garantiscano la presa in carico di problematiche relative a genitori anziani, scarseggiano forme di assistenza e di continuità all’esterno dell’ospedale e via così. La persona che ha un parente fragile a casa vede solo nelle strutture ospedaliere l’accesso primario alla risoluzione di queste condizioni. Ma, come dicevo, dare risposte è spesso difficile. Per questo vorremmo che il Pnrr identificasse percorsi integrati fra bisogni sociali e bisogni socio-sanitari.
Le pressioni e il rischio per la propria incolumità inducono il personale infermieristico a cambiare mestiere?
In realtà il problema principale riguarda i giovani: quelli che scelgono questa professione sono sempre meno, proprio perché percepiscono le difficili condizioni dei colleghi adulti. Preferiscono stare lontani. Infatti, i corsi di laurea non si riempiono.