Le parole del Procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, sono complementari a quelle di don Rigoldi, storico cappellano del carcere Beccaria di Milano, e dicono di uno Stato che ha fallito la missione “giustizia”. Carceri che diventano soltanto luoghi di segregazione sociale e di mortificazione personale sono di per sé un fallimento per la democrazia, ma quando a essere così famigerati sono anche le carceri minorili, quando cioè esse diventano una “scuola di delinquenza” che per lo più prepara al “salto” nelle carceri adulte, allora il fallimento è tanto grave da essere destabilizzante.
Così come quando un Procuratore della Repubblica, in questo caso quello di Foggia, deve ammettere nel corso dell’intervista che: “Noi non siamo solo fisicamente lontani dalla gente, ma la gente ci percepisce in questo modo. Chiediamo collaborazione, denunce, testimonianze, ma siamo lontani. I cittadini sentono la bomba che esplode sotto casa, sentono i vetri delle loro finestre che tremano, ma la procura e il tribunale sono distanti. Per otto anni sono stato giudice al tribunale di Foggia: facevamo tre, anche quattro udienze a settimana, oggi un giudice non riesce a farne più di due perché non ci sono le aule. Quindi non solo la desertificazione giudiziaria, ma anche un ingolfamento che ha conseguenze terribili”.
Non è esagerato e non è retorico parlare di fallimento della missione giustizia, solo che si ci intenda su una premessa: per chi “fa” giustizia lo Stato? Nelle aule di tribunale campeggia la frase che dovrebbe rassicurare chiunque e che dovrebbe non soltanto servire a rispondere a questa domanda, ma che ancor più profondamente dovrebbe servire a rappresentare il senso profondo del patto di lealtà tra cittadini e Istituzioni: la Legge è uguale per tutti.
Cosa c’è dentro questa frase? C’è il cuore stesso della promessa costituzionale: non ci saranno mai più persone di “serie a” e persone di “serie b” in ragione della “razza” cui appartengono, del dio in cui credono, del genere o dell’orientamento sessuale, di quanti soldi abbiano nel portafoglio, di quanto siano forti e sane oppure no, perché ogni persona vale in quanto tale e la missione della Repubblica è quella di riconoscerla e custodirla creando le condizioni grazie alle quali a ciascuno sia data la possibilità di vivere libero dalla paura e dal bisogno.
Su questa promessa si è rifondata l’Italia dopo l’orrore del nazifascismo. Questa promessa oggi sembra radicalmente contraddetta: lo Stato si ritira, rinuncia a questa funzione essenziale, che ha a che fare tanto con la libertà quanto con la giustizia, e diventa “buono” soltanto per chi ce la fa già di suo. Uno stato che arretra e lascia che a salvarsi sia chi può. Uno Stato sempre più fondato sulla discriminazione sociale assunta non soltanto come premessa, ma anche come obiettivo.
Uno Stato che lascia andare in malora la scuola pubblica, la sanità pubblica e così pure il sistema giustizia, ma che strizza l’occhio ai furbi e agli evasori è uno Stato che sempre meno ha a che fare con quella promessa costituzionale e sempre più appare come un “notaio” pronto a prendere atto del verdetto del ring sociale: è meritevole chi vince, mentre chi perde ha la colpa di non essere stato abbastanza bravo e sarà quindi giusto lasciarlo da parte.
Bisogna trovare la forza di ribellarsi a questo circolo vizioso per cui chi provi a difendere e riscattare il ruolo costituzionale dello Stato viene regolarmente bullizzato con il solito argomento: il debito pubblico è mastodontico, la pressione fiscale è insopportabile, dunque bisogna tagliare! Bisogna trovare il coraggio di uscire da questa logica perversa accettando la sfida di governare il debito pubblico e modificare il sistema fiscale rendendolo più equo e insieme espandere la spesa pubblica per garantire allo Stato le risorse che servono per fare giustizia (in tutti i sensi). Una sfida impossibile? Per me è l’unica che valga lo sforzo di rifondare non soltanto il Pd, ma l’intero fronte progressista.
E visto che di questi tempi il congresso per la segretaria del Pd è una delle occasioni più interessanti per capire se, chi e come vorrà interpretare questa sfida, mi domando: c’è qualcuno tra i candidati alla segreteria del Pd che abbia il coraggio di affermare che a 10 anni di distanza dalla riforma della geografia giudiziaria sia necessaria una verifica per capire dove i tagli approvati allora abbiano prodotto più lacerazioni sociali che efficienza giurisdizionale? C’è qualcuno che si incarichi di spiegare al ministro Carlo Nordio che il problema non sono i pm a caccia di gloria, ma i cittadini affamati di giustizia?