“Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”, era solito dire quasi mille anni fa San Bernardo di Chiaravalle. Oggi le sue parole, quanto mai attuali, continuano a vivere nel nostro vino, che sempre di più gioca un ruolo a livello economico e culturale. Un numero crescente di brindisi nel mondo è infatti made in Italy: l’export delle nostre bottiglie ha superato nel 2022 la cifra record di 8 miliardi di euro. L’Italia è ancora lontana dai numeri cugini d’oltralpe che crescono meno di noi, ma che conservano un netto distacco con i loro 12 miliardi di export. E’ quindi proprio questo il momento per capire come fare ancora meglio. Il successo non è eterno e il futuro del vino italiano non può dipendere solamente da congiunture socio-economiche favorevoli come il cambio dollaro-euro e le politiche comunitarie di promozione/difesa del settore. All’orizzonte tante sono le nuove sfide: una su tutte la competizione dei “nuovi continenti del vino” – Usa e Australia – ormai evidente e presente anche sugli scaffali dei nostri supermercati. L’Italia deve puntare anche nel vino su ricerca e qualità, maturando una difficile – costosa ma necessaria – visione di medio-lungo termine.
Non è forse così noto che sia il legno l’elemento “segreto” del vino su cui le più lungimiranti cantine italiane stanno da anni puntando. Quando si parla di legno nel vino, ci si scontra però con tanti equivoci e “malcostumi” che derivano da una non-cultura (soprattutto statunitense) che vede in questo materiale uno strumento per “insaporire/aromatizzare” il vino piuttosto che per nobilitarlo: una botte, infatti, non migliora un vino debole delicato e fragile, ma esalta le caratteristiche di vini strutturati e ricchi di aroma primario dell’uva. Se il terreno è un fattore ambientale, un “dono” da preservare – unico e irripetibile – molto può essere fatto invece sulla scelta del legno e del modo con cui impiegarlo per fabbricare le botti. Non è una scoperta recente, ma una tradizione secolare, che oggi si è perfezionata grazie all’impegno scientifico. Negli anni ’90 lo Stato francese con l’ONF (Office national des forêts) e gli Istituti di Ricerca sul vino di Montpellier e Bordeaux danno il via a lunghi e complessi studi volti ad analizzare l’influenza dell’essenza del legno sui vini in affinamento in botte. I risultati cambiano la storia stessa del vino: viene infatti verificato scientificamente come diverse qualità di rovere (unica essenza impiegata per le botti in legno) e diverse provenienze abbiano un impatto chiaro sul prodotto finale. Da allora si ha evidenza che il legno non è tutto uguale e che – dati scientifici alla mano – diversi suoli determinano diverse piante (rovere), botti e perciò aromi diversi nel vino. Ciò è tanto più importante se si pensa che la maggior parte delle barrique in Italia proviene dalla Francia che con i suoi 17 milioni di ettari di foreste è non solo un polmone verde, ma anche la principale fonte di legno per l’edilizia, i rivestimenti e le botti in Europa. L’industrializzazione e la necessità di grandi quantità di vino a minori costi hanno spinto negli anni a produrre botti anche attraverso essiccamento artificiale (12 -14 mesi invece di 3 anni). Il risultato è diverso e il vino ne risente.
Cà del Bosco (Lombardia) e Terre Margaritelli (Umbria), due cantine italiane – in qualche misura avveniristiche – hanno deciso da oltre vent’anni di essere tra i primi a portare avanti in Italia quella che potrebbe essere definita la “rivoluzione della botte” investendo enormi risorse (soldi e soprattutto tempo) nel ripensare e sostituire il proprio parco botti (si pensi che Cà del Bosco ne conta oltre 1500) con nuovi esemplari, costruiti in base a una rilettura scientifica di saperi millenari. È stata una scelta non facile che entrambe le cantine, indipendenti e lontane per storia e prodotto, hanno però ritenuto necessaria: scegliere gli alberi migliori nelle foreste di Francia, aspettare 3-4 anni, controllare in loco (presso i bottai della Borgogna in Francia) ogni passaggio fino alla realizzazione delle botti, ivi compresa la tostatura finale. Questa trasformazione – sempre in divenire – ha richiesto solo per cominciare oltre 10 anni (tra selezione legno, stagionatura, affinamento del vino), che per un’azienda “tradizionale” sono un’eternità. L’enologo Stefano Capelli è il direttore Generale della Ca’ del Bosco; con questa azienda – che ha “inventato” il Franciacorta – ha alle spalle 37 vendemmie ed è stato l’“uomo” che, insieme al fondatore Maurizio Zanella, ha dato origine a questa rivoluzione in Lombardia: “La botte di legno è lo strumento ideale per l’affinamento dei nostri vini. Il vino al suo interno “respira” e l’essenza rovere è quella che permette al vino di “elevarsi”, e raggiungere la complessità aromatica in armonia con l’aroma del frutto che l’ha generato. Il legno cede al vino le essenze di cui è composto e di cui si è arricchito durante le fasi di stagionatura e di fabbricazione della botte (tostatura). Note aromatiche di cocco, vaniglia, mandorla, liquirizia e caffè che perfezionano e valorizzano i nostri vini base. Il rovere non dà sapore al vino, ma ne esalta le proprietà. In particolare, il rovere sessile (Quercus petraea), che in foresta cresce lentamente, e se stagionato adeguatamente, fa sì che la botte rilasci meno tannini e che il vino non perda in eleganza e morbidezza. Non si può sbagliare: da oltre vent’anni a febbraio e a luglio mi reco in Borgogna per selezionare i legni per le nuove botti che andremo a fabbricare e a controllare e verificare la loro stagionatura naturale. Infine si assiste alla nascita delle botti e con particolare attenzione alla loro tostatura: quel momento in cui il fuoco modella e completa la botte ultimata”.
Terre Margaritelli va persino oltre, in una tensione continua all’eccellenza arriva a quattro anni di stagionatura naturale del legno. Non solo, la cantina impiega rovere sessile provenienti esclusivamente dalla Foresta des Bertranges (Borgogna), dove, grazie alla particolare esposizione e natura del terreno, queste piante crescono ancora più lentamente, acquisendo una grana finissima e un tenore di tannini quanto mai equilibrato. In questa azienda la scelta di investire nel legno è stata una questione di identità familiare, oltre che imprenditoriale. Non tutti sanno che Terre Margaritelli è infatti parte dell’omonimo gruppo fondato nel 1870 e oggi celebre per aver anche inventato il “Listone Giordano”. La “via della botte” è stata determinata come forma di passaggio generazionale: il nonno Fernando aveva lasciato le attività imprenditoriali ai tre figli il 1° giugno 1946, per ritirarsi e dedicarsi alla sua passione per la viticoltura. Intorno alla fine degli anni ’90 suo figlio Giuseppe insieme al nipote Dario (oggi Presidente) ha deciso di omaggiare e rilanciare l’attività del capostipite portando la cultura del legno in cantina: dal 1961 il gruppo Margaritelli è tra i detentori delle maggiori concessioni di rovere in Francia e qui ha avuto l’opportunità di prendere parte a una delle più importanti ricerche scientifiche volte a fare luce sulla relazione tra legno e qualità del vino. Andrea Margaritelli, membro della Famiglia e brand manager di Listone Giordano, ci spiega come “Nel rilanciare l’attività avviata dal nonno non solo decidemmo di raggiungere i 60 ettari di vigneti e abbracciare tra i primissimi la scelta biologica, ma ci lanciammo in forti investimenti per far entrare la cultura del legno anche in cantina. Così dopo anni di ricerche e investimenti, nel 2004 nasce Malot il nostro primo vino che matura il suo carattere intenso in barrique di rovere francese proveniente dalla foresta di Bertranges. E’ stata l’unica scelta possibile, coerente con quello che siamo e che vogliamo essere: progetti di respiro, quelli che daranno risultati a lungo, hanno bisogno di tempo, generosità e lungimiranza. La mia famiglia ha imparato dalla natura e dagli alberi a essere umili, ricettivi e soprattutto a non avere fretta”.
Se a prima vista questa rincorsa e attenzione – a tratti maniacale – nei confronti del legno può sembrare un passatempo per ricchi viziati, Andrea Margaritelli ci porta a vederla sotto un’altra luce: “San Roberto di Molesme fondò l’Ordine Cistercense mille anni fa per servire ‘Dio in condizioni più pacifiche e in un modo più salutare’ . A quest’ordine si deve la selvicoltura francese, il primo ettaro di viti in Francia e un approccio ecologista ante-litteram. Il vino è la sintesi di questi tre elementi: perché non avere il coraggio di pretendere il meglio? Forse dovremmo pensare che oggi più che mai in ogni aspetto della nostra vita dovremmo applicare la massima ‘meno ma meglio'”. E conclude: “Il legno fa la differenza e grazie al vino sulle nostre tavole c’è memoria, una bella memoria da cui imparare e prendere ispirazione”. L’elemento pazienza e tempo sembrano così essere parte di quella magia che c’è nel miglior vino. Ogni calice è pieno della storia di un monaco benedettino che si rifugiò in un bosco per ritrovare se stesso e Dio (lontano dalla mondanità della città), del rispetto per la natura, della solidarietà intergenerazionale (le botti si fanno con legno che deriva da alberi piantati almeno 120 anni prima) della possibilità di unire scienza e tradizione, dell’importanza di valori sottovalutati come pazienza e perfezionismo. Anche in una – non semplice – botte risiede tutto il “nostro heritage”, quella chiave, che ci permette e ci permetterà sempre più di difendere e fra crescere il “made in Italy” anche nel vino.