28 dicembre: sulla prima pagina de La Verità – buffo caso della storia quello di un quotidiano della destra che ha lo stesso nome della Pravda sovietica – il direttore Maurizio Belpietro dà vita all’ennesimo capitolo della crociata contro i percettori del reddito di cittadinanza. La tesi è tutt’altro che nuova: il lavoro c’è; sono i percettori a non volerlo accettare.

Stavolta la tesi si appoggia sull’ultimo rapporto Unioncamere-Anpal che, secondo quanto riporta il titolo del quotidiano, affermerebbe che “il 41% dei posti di lavoro è scoperto”. Peccato che se Belpietro avesse letto anche solo l’articolo de Il Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria, saprebbe che quel dato – il 41% – frutto delle dichiarazioni degli stessi imprenditori, rappresenta i casi in cui “la selezione si è rivelata più difficile del previsto”. Con tempi di reperimento del lavoratore o della lavoratrice che a volte toccano i quattro, a volte i 5-6 mesi. Insomma, una situazione ben più complessa di quella presentata dal titolo della Verità, malgrado anche il Sole 24 Ore usi l’espressione “introvabili”. Ma, almeno, tra virgolette.

Ma se ci sono tutti questi posti di lavoro, com’è possibile che vi siano così tanti disoccupati e così tanti percettori di reddito? La risposta di Belpietro è cristallina: “I posti ci sono, basta cercarli e, soprattutto, accettarli”. Insomma, sarebbero disoccupati e percettori a non voler lavorare. Eccoli lì i “divanisti”, “fannulloni”, “parassiti”, “accattoni”… E chi più ne ha più ne metta.

Belpietro esprime quello che si è fatto “senso comune”. E non perché sia un’esperienza vissuta quotidianamente da tutti i cittadini e tutte le cittadine. È un senso comune prodotto dal potere mediatico. Una narrazione ripetuta da anni. Ogni giorno. Prime pagine dei giornali, aperture dei tg sui “furbetti”, talk show in cui i percettori finiscono per essere additati come nemici del resto della popolazione.

Non si tratta nemmeno semplicemente di distinguere il vero dal falso. Ma di “parzialità”. Com’è normale che sia in politica che, appunto, è battaglia tra “parti” diverse. La questione diventa quindi quella di far venire alla luce l’altra parte, quella perennemente oscurata dal potere mediatico. Quella, per esempio, che ci racconta dell’estrema disponibilità dei cittadini e delle cittadine a spostarsi, a emigrare, a essere impiegati in lavori distanti dalle proprie ambizioni e anche dai propri studi.

Secondo il rapporto Migrantes pubblicato agli inizi di novembre 2022, gli italiani residenti all’estero sono ormai quasi 6 milioni. Significa che il 10% degli italiani non vive in uno dei 7.904 Comuni della penisola, ma fuori, in altri Stati. E questa componente è in costante aumento: +5,8% dal 2020 (+154mila iscrizione all’Aire), contro una diminuzione della popolazione residente invece in Italia (-1,1%).

Per i tanti Belpietro, però, non contano questi dati, così come non contano quelli che parlano di 250mila giovani emigrati all’estero nei 10 anni precedenti la pandemia, né quelli Svimez che ci raccontano un Paese in cui 2 milioni di meridionali sono partiti nei 15 anni prima del Covid. Conta il racconto, conta la costruzione di un senso comune che afferma che i giovani, soprattutto se meridionali, sono scansafatiche cui andrebbe insegnata la virtù del sacrificio – ricordate “i giovani devono soffrire” di renziana memoria?

Quando Belpietro scrive che “ora la sola idea di traslocare di qualche centinaio di chilometri pare un insulto”, mette in campo un’operazione ideologica che mitizza un passato in cui i nostri genitori, nonni e bisnonni partivano con le loro valigie di cartone – perché disposti al sacrificio, e lo contrappone a un presente tempo di scansafatiche – senza alcuna voglia di sacrificarsi.

Un’operazione reazionaria per eccellenza: costruisce un passato mitologico cui si vorrebbe ritornare, riportando indietro le lancette della storia – magari fino ai tempi di Dagli Appennini alle Ande; inferiorizza ampie fasce di popolazione, individualizza le responsabilità, inducendo a un ripiegamento su se stessi, aggravato da un senso di colpa sapientemente e costantemente instillato che fa sì che tra giovani, disoccupati e percettori si diffonda la percezione di essere quelli “sbagliati”, di essere causa del proprio male (in questo modo si allontanano le cause strutturali e si scagiona implicitamente un sistema profondamente violento e ingiusto).

Credere che basti snocciolare dati, che basti avere ragione per sconfiggere l’egemonia delle destre e per condurci dal “senso comune” al “buon senso” significa non aver compreso la dimensione della “battaglia delle idee”. Serve invece sfidare il potere mediatico, utilizzando ogni possibile spazio e, al contempo, costruire i nostri strumenti, la nostra agenda, la nostra visione. Quella al servizio del presente e del futuro della maggioranza della popolazione.

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