“Non si tratta solo del velo: è una rivolta contro il regime”. Oppure: “Non è solo la questione dell’hijab, le nuove generazioni hanno valori diversi rispetto alle precedenti”. E anche: “Le donne c’entrano, ma è la situazione economica del paese ad essere esplosiva”. Si potrebbe continuare così enumerando i commenti di esperti di politica internazionale così come quelli, meno competenti e a spanne, che sui social di ogni tipo esprimono la loro su ciò che sta accadendo in Iran.
Il problema è proprio questo: che cosa stia succedendo in Iran, da cosa sia partita la rivolta e il fastidio che serpeggia in questi commenti e analisi perché non è possibile ignorare che tutto è partito, il 16 settembre 2022, dal massacro di una giovane donna, Mahsa Amini, rimasta in coma tre giorni dopo le percosse e gli abusi da parte della polizia ‘morale’, uccisa per non avere indossato il velo islamico in modo corretto.
Si tratta, in primo luogo, del profondo e patologico imbarbarimento delle relazioni tra i sessi, dalla permanenza tossica di un patriarcato alimentato dalla distorsione perversa della fede religiosa che dimostra, per usare le parole dello psicoanalista Massimo Recalcati, come “credere fanaticamente in Dio sia un modo per rifiutare l’esistenza della donna e per continuare a odiare la vita”. La misoginia, l’odio verso le donne è, infatti, la plastica dimostrazione dell’avversione per l’esistenza umana tutta: senza la generatività delle donne, senza la libertà dei loro corpi, non c’è futuro per l’umanità.
E’ indubitabile che l’Iran viva, da molti anni, in una condizione di degrado democratico, sociale ed economico, sotto il giogo della sharia e la follia che ne consegue. Ma, prima di ogni altra considerazione e analisi, il paese è una immensa, crudele e terrificante prigione per tutte le donne che purtroppo sono nate lì segregate da un regime religioso teocratico fondamentalista. Lo scenario descritto, a metà degli anni ’80, da Margaret Atwood ne Il racconto dell’ancella si è orrendamente realizzato in alcuni luoghi del mondo e, tra questi, l’Iran ne è l’incubotica materializzazione.
Si potrebbe descrivere come analoga anche la condizione delle donne di un altro paese a guida dei fondamentalisti islamici, l’Afghanistan, dove, proprio in questi giorni, alcune importanti ong hanno dichiarato di dover lasciare il paese dopo il divieto per le donne e le bambine di frequentare la scuola imposto dai talebani. ‘Non possiamo più lavorare qui senza le donne’, è stato il drammatico commento delle organizzazioni umanitarie, la cui partenza genera conseguenze di povertà e segregazione immense e inimmaginabili.
Ma se si esclude il drammatico parallelismo riguardo alla dittatura sessuale su base religiosa, le differenze tra i due paesi sono enormi: per il livello di scolarizzazione delle donne, per la ricchezza economica, per la collocazione geopolitica e per la storia recente che fanno dell’Iran, da sempre, il termometro politico per l’area del medio oriente. “Donne, vita, libertà” è uno slogan centrale a livello planetario coniato dal movimento di rivolta che da oltre tre mesi le giovanissime attiviste scandiscono, scrivono, cantano e postano sui social quando riescono ad eludere la censura del regime.
Dopo il massacro di Mahsa Amini è iniziata l’oscena contabilità di morte per le donne, quasi tutte giovanissime, torturate e violentate prima di essere uccise. Dopo Mahsa Amini ci sono Nika Shakarami (17 anni), Hadis Najafi (20 anni), Hannaneh Kia (23 anni), Ghazaleh Chalavi (32 anni), Mahsa Moguyi (18 anni), Aida Rostami (36 anni), la dottoressa che curava i feriti. Ma questi sono solo i nomi che si conoscono, perché le informazioni filtrano con enorme difficoltà e le riceviamo grazie anche a chi, come l’attivista femminista Masih Alinejad, rifugiata negli Stati Uniti, autrice del libro Il vento tra i capelli, riporta senza sosta su vari canali on line immagini, appelli e dirette da Teheran e dintorni.
Per fortuna grande scalpore ha fatto l’arresto della attrice pluripremiata Taraneh Alidoosti, della quale non si hanno più notizie: l’ultima vittima in ordine di tempo è la bambina di nome Masooumeh, 14 anni, straziata nel corpo da violenza inaudita perché, insieme ad alcune compagne di classe (per la vita delle quali ora si teme), si era tolta il velo: il gruppo si era ritratto di spalle con la scritta “donne, vita, libertà”.
Centinaia di persone, nel mondo della cultura del giornalismo, personaggi pubblici e dell’attivismo hanno subito intimidazioni, violenza e arresti. Il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha commentato così le rivolte in un suo recente messaggio al popolo iraniano, mettendo l’accento sulla matrice antipatriarcale, femminista e antifondamentalista della rivolta: ”Gli uomini che partecipano a Zan, Zendegi, Azadi (Donne, vita, libertà) sanno bene che la lotta per i diritti delle donne è anche la lotta per la propria libertà: l’oppressione delle donne non è un caso speciale. E’ il momento in cui l’oppressione che permea l’intera società è più visibile”.
Questo a me pare il punto centrale: laddove le donne non hanno cittadinanza, i diritti di ogni essere umano sono in pericolo. I diritti delle donne sono la base dei diritti universali e non ci sono diritti universali dove non c’è la completa separazione della religione dallo stato (non la versione inglese multiculturalista di eguale tolleranza per le religioni, che alimenta il comunitarismo). La libertà di religione, o di credo, è un importante diritto umano: è una questione personale di coscienza.
Quando però la religione è parte integrante dello stato, o della legge, non si tratta più di credo personale, ma di potere e controllo sulla collettività. La difesa della laicità è una sfida importante per i progetti islamisti che aumentano in Europa, come le corti della Sharia, il burqa o la segregazione di genere nelle università britanniche.
L’islamismo, come altri movimenti di destra religiosa (inclusa la destra cristiana, indù, ebraica o buddista), usa la religione per il controllo della società e per la riscrittura, in un’ottica di estrema destra, della società. Opporsi all’islamismo e alle sue pratiche, tra cui l’imposizione del velo, significa né più né meno opporsi a una deriva di destra.
Il velo, e la conseguente segregazione sessuale, è centrale nel progetto islamista per la cancellazione delle donne dallo spazio pubblico, come accade in Iran e in Afghanistan. La portata universale della lotta delle iraniane, e degli uomini al loro fianco, è la straordinaria occasione per il femminismo a livello globale di riaffermare che la libertà delle donne sui loro corpi è il primo indicatore della civiltà, dell’equità e del benessere sul pianeta Terra.