Il bilancio sintetico di questo Natale di guerra, che secondo una previsione poco confortante di Lucio Caracciolo potrebbe non essere l’ultimo, ha registrato dopo le 16 vittime e i 64 feriti solo a Kherson nei bombardamenti sui civili della vigilia altri segnali di inasprimento: l’allarme aereo esteso dalle regioni di Kiev e Leopoli a tutto il paese, le raccomandazioni nelle ultime ore delle autorità di Kherson ai residenti di evacuare a causa dell’intensificarsi degli attacchi aerei (7 il 26 dicembre), l’esplosione in Bielorussia di un caccia intercettore supersonico russo a conferma dell’escalation della sinergia bellica con Lukashenko.

In contemporanea, con puntuale spirito natalizio, Putin alla televisione di Stato Rossiya 1, cioè il suo megafono, rispondendo all’insidiosa domanda “se la Russia possa trattare l’Ucraina in modo cinico e subdolo come fanno i paesi dell’Occidente” ha garantito che mai e poi mai la Russia potrebbe occuparsi dell’Ucraina con analogo cinismo e ha ribadito “Noi siamo pronti a negoziare con tutti i soggetti coinvolti ma dipende da loro“. Con tanto di ritornello collaudato contro Kiev e gli alleati che “si rifiutano di negoziare” ed ennesime, esplicite accuse “all’ Occidente che vuole dividere la Russia”.

Una replica dell’affermazione “la guerra prima finisce, meglio è”, contestuale all’intervento di Zelensky al Congresso americano del 22 dicembre e apertamente antitetica alla valutazione di due settimane fa, quando riteneva che l’invasione dell’Ucraina “potrebbe essere ancora un lungo processo”. Una serie di uscite più o meno calcolate o solo dettate dalla necessità contingente di doversi arrampicare sempre più sugli specchi, e così contraddittorie ed inattendibili che dovrebbero essere avvertite come tali da qualsiasi osservatore, inclusi i bellicosi pacifisti nostrani che al contrario – accecati dal livore antieuropeo e dal pregiudizio antioccidentale – preferiscono pendere dalla lingua biforcuta di Putin.

Comprensibile l’irritazione e scontate le reazioni scomposte, una per tutte “Zelensky figlio di putt*na dell’Occidente” (secondo la portavoce di Sergei Lavrov), oltre gli ordinari standard di arroganza e provocazione a cui ci ha abituato in questi mesi il Cremlino, in risposta al viaggio da Bakhmut alla Casa Bianca e al Congresso del presidente ucraino, un viaggio forse determinante anche per l’esito ed i tempi del conflitto.

La trasferta lampo dell’ex comico per i detrattori, o “uomo dell’anno” per il Time ed il Financial Times come per tanti comuni cittadini che continuano a preferire le democrazie alle autarchie e ai regimi orwelliani, è stata di per sé un evento rilevante e una sfida aperta al tiranno che credeva di rimuoverlo come una pedina degli scacchi in una settimana. E più ancora il suo discorso, con un’ accoglienza non scontata da parte del Congresso dove è stato sommerso da applausi bipartisan e da continue standing ovation che hanno obiettivamente riconosciuto a Zelensky il ruolo effettivo e simbolico che si è conquistato dopo oltre 300 giorni di resistenza all’arroganza e alla brutalità di Putin.

La fermezza e la coerenza sono state il tratto distintivo di un discorso con cui in fondo Zelensky ha ribadito la sua posizione inequivocabile fin dall’inizio dell’invasione, quando 60 km di carrarmati marchiati con la Z, che avrebbe contraddistinto tutti gli orrori successivi, erano minacciosamente incolonnati verso il cuore di Kiev – dove non sono mai arrivati. Per il semplice motivo che l’ex comico “ebreo e nazista come tutto il suo popolo”, secondo “la colomba” Lavrov e seguaci, a rischio della vita ha declinato l’offerta dell’amministrazione Biden per lasciare il paese replicando: “La battaglia è qui. Mi servono munizioni, non un passaggio”.

Analogamente dopo 300 giorni di resistenza, un inverno invivibile davanti e con la prospettiva di una prossima controffensiva russa da Nord spalleggiata dalla Bielorussia, Zelensky ha evidenziato che le mire di Putin “potrebbero spingersi oltre l’Ucraina verso stati dell’ex Unione Sovietica” e dunque per garantire che l’Ucraina continui “ad essere viva e a resistere” occorrono le armi: “Abbiamo l’artiglieria, grazie, E’ abbastanza? Onestamente no”. E con questo discorso, in un momento particolarmente delicato in cui sta per insediarsi un nuovo Congresso dove il Parlamento sarà a maggioranza repubblicana con i trumpiani schierati decisamente con Putin, Zelensky è pienamente riuscito ad essere accolto come un grande alleato e una figura eroica che ha fatto di Kiev un baluardo anti-dittatura. Ma è anche riuscito a garantirsi con i Patriot quella difesa aerea che reclamava da mesi e che avrebbe potuto salvare tante vite, in particolare da quando “l’operazione speciale” (solo a Natale definita guerra, forse perché Putin come aveva preannunciato vuole iniziare “a fare sul serio”) si è concentrata nell’annientamento dei civili con la distruzione delle infrastrutture idriche ed energetiche.

Anche se l’Ucraina ha portato a casa “solo” i Patriot, e non i missili a lunga gittata, sono bastati ad innervosire parecchio il Putin natalizio impegnato nell’obiettivo “di porre fine a questa guerra”: infatti li ha liquidati come “obsoleti” e ha dichiarato sprezzante “schiacceremo anche questi”, come aveva già fatto in precedenza dopo l’invio dei carrarmati, anche se “rischiano di prolungare il conflitto”. E più sprezzante è stato l’ex presidente russo ora vicepresidente del consiglio di sicurezza Dmitri Medvedev, che ha ribadito l’obiettivo dell’operazione militare speciale: “abbattere il regime disgustoso dei nazionalisti di Kiev”.

Solo che anche i più strenui fautori dell’operazione speciale dovranno prestissimo misurarsi con l’incontrovertibile effetto boomerang di quell’attacco scellerato che ha prodotto in primo luogo “un enorme consolidamento dell’identità ucraina, anche tra gli ucraini di lingua russa” (Michael Walzer, politologo, professore a Princeton). Ma ancora peggio, dal punto di vista di Mosca, è l’evidenza che “l’Ucraina non è più per l’Occidente una periferica ex parte dell’Urss che non ha saldato i conti con il vecchio padrone di Mosca. E’ diventata l’intrepida barriera democratica contro l’assalto dell’autocrazia universale”.(Domenico Quirico, La Stampa del 23/12/22).

E potrebbe esserci persino una vaga prospettiva di pace “giusta” in tempi non biblici, se come rileverebbero i sondaggi più recenti e come conferma anche l’analista e stratega politico russo Abbas Gallyamov, in Russia l’aria è notevolmente cambiata: il numero dei sostenitori della guerra vittoriosa sull’Ucraina da annientare continua sensibilmente a scendere, mentre aumenta quello dei sostenitori dei negoziati di pace. Una riconferma del fatto,, già evidente con il flop dell’arruolamento forzato, che le persone non vogliono combattere e non vogliono vedere i loro cari impegnati in una guerra sempre più cruenta e fallimentare. E così la base del regime si sta frantumando grazie anche ai “patrioti”, all’estrema destra, ai supporter della Wagner delusi dallo Zar e consapevoli di non avere reali margini di manovra perché “in questo caso l’Occidente e, in effetti tutto il mondo ha agito in modo troppo compatto”. Così per una volta il tanto vituperato Occidente e l’Europa “suicida ed asservita a Biden” avrebbero intrapreso la strada giusta, e cioè quella della fermezza, con buona pace del professor Orsini e della filosofa Di Cesare.

Difficile dire se il summit di pace entro fine febbraio preferibilmente alle Nazioni unite, annunciato dal ministro degli Esteri ucraino Kuleba all’Associated Press, possa appartenere al regno della realtà o dei desideri, ma è comunque qualcosa di cui non si era ancora parlato.

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