Il 3 novembre 2022 la bandiera della Federazione russa venne ammainata dal municipio della città di Kherson. Una settimana dopo le truppe russe avrebbero cominciato a ritirarsi al di là del Dnipro e gli ucraini sarebbero arrivati, riconquistando la città.

Quella bandiera ammainata in anticipo sarà forse ricordata un giorno come il segno di una svolta storica, che segna un cambio d’epoca per la Russia. Mosca – è possibile già dirlo – ha perso questa guerra. Potrà scatenare tremendi contraccolpi. Potrà asserragliarsi in certi spazi ucraini. Ma l’obiettivo della “operazione militare speciale”, lanciata da Putin il 24 febbraio 2022, è fallito. La lunga fila di camion ripresi mentre si dirigevano minacciosamente verso Kyiv si è dissolta. La capitale ucraina non è stata conquistata. Il presidente Zelensky non è stato catturato. L’Ucraina non è collassata. Kharkiv e Odessa non sono state prese. Al contrario, le truppe ucraine sono passate all’offensiva e sono riuscite a liberare territori che i russi avevano molto faticosamente conquistato.

Un primo dato devastante per lo status della Russia di Putin è che (salvo eccezioni rappresentate da singoli reparti russi, dalle milizie cecene, dai mercenari del gruppo Wagner) i soldati ucraini sul terreno si dimostrano superiori a quelli russi in quanto forza combattente. Si può dire che l’esercito ucraino senza il flusso continuo di armi, finanziamenti e aiuti di ogni tipo occidentali, senza l’addestramento fornito da istruttori occidentali, senza il sostegno sistematico dell’intelligence occidentale e senza una serie di apparecchiature sofisticatissime messe a diposizione dall’Occidente (per non parlare delle sanzioni che colpiscono il tessuto economico russo) nulla potrebbe. Verissimo. Ma in tal caso le conclusioni sono ancora più nette: significa che la Russia di fronte alla Nato – prescindendo dal ricorso apocalittico all’arma nucleare – si trova in una posizione di inferiorità.

Se si guarda alla guerra in corso, non fermandosi solo alla cronaca, sembra essere questo il bilancio geopolitico di lungo respiro. La storia conosce queste cesure. Per due secoli, tra il Settecento e l’Ottocento, l’impero russo ha fatto saldamente parte del “concerto delle potenze” europee, espandendosi in continuazione. Poi, all’inizio del XX secolo, in Estremo Oriente l’impero russo entra in collisione con il Giappone. Mosca è convinta di vincere e invece va incontro a una disfatta. Perde nel 1904 la battaglia di Port Arthur. Perde nel 1905 la battaglia navale di Tsushima. Una canzone straziante, “Sulle colline della Manciuria”, testimonia ancora oggi lo smarrimento per una débacle inaspettata. E’ l’inizio della fine di ciò che la Russia in termini di potenza aveva rappresentato dall’avvento di Pietro il Grande. Seguiranno quindici anni di sconvolgimenti. La rivoluzione del 1905, la I Guerra mondiale con le deludenti prestazioni delle armate zariste, la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, la guerra civile tra “rossi” e “bianchi”.

Da lì, lentamente inizia il cammino di ricostruzione verso lo status di grande potenza culminato con la presa di Berlino nel 1945 e con la fabbricazione dell’arma atomica: Mosca diventa superpotenza nucleare. (E, per quanto riguarda la bomba H, lo è tuttora). Questo alone di grande potenza è complessivamente sopravvissuto al crollo dell’Urss e ha contraddistinto l’era post-sovietica nonostante l’eclissi della stagione eltsiniana. Anzi il patto sociale dell’era Putin consisteva proprio in questo: in cambio dell’accentramento autocratico il leader garantiva alla società una ripresa dello status e dell’influenza russi nel mondo.

Tuttavia è proprio questo “prestigio” che risulta gravemente scosso dallo svolgersi della guerra in corso. Di più, il conflitto ha portato alla luce una sorta di disfacimento del tessuto della società post-sovietica russa. Un fenomeno di sgretolamento che coinvolge i poteri forti ma anche pezzi di società civile. I servizi segreti che sbagliano ogni previsione sull’umore sociale in Ucraina e sulle difese del governo di Kiev e che nei territori occupati non riescono a salvare da attentati mortali funzionari filorussi.

Sfidando gli eredi del temutissimo Kgb, la mano ucraina riesce a colpire addirittura nei pressi di Mosca la figlia dell’ideologo ultranazionalista russo Dughin. Mosca subisce la devastante audacia di Kyiv. Ponti saltati. Gasdotti sabotati. Droni ucraini che avanzano per centinaia e centinaia di chilometri nel territorio russo, arrivando fino ad Engels, la base dei bombardieri nucleari.

L’elenco non è finito. La povertà tattica dei comandanti militari. E la barbarie di quei soldati che si abbandonano a crimini e violenze. E la miseria umana di quei reparti che nella prima fase si gettavano al saccheggio, accaparrando elettrodomestici e televisori da spedire a casa. Sono fenomeni che vanno al di là del perimetro delle vicende militari sul campo e toccano la sostanza profonda dello stato russo oggi.

Di questa sorta di Caporetto fa parte l’evidente disaffezione che le giovani generazioni, specie urbane, provano nei confronti della guerra in Ucraina e verso la prospettiva di una chiamata alle armi. La fuga in massa verso Georgia, Azerbaigian, Kazakistan, Finlandia e Turchia di centinaia di migliaia di persone, appena in autunno è stata annunciata la mobilitazione parziale, testimonia lo scollamento di una parte significativa del ceto medio nei confronti dello Stato.

Papa Francesco si è mostrato profetico quando il giorno dopo l’invasione dell’Ucraina è corso all’ambasciata russa presso la Santa Sede per esortare Putin a non imboccare il sentiero della catastrofe.

Con questa guerra tramonta la fase post-sovietica della Russia. Il futuro è tutto da scrivere. L’unica cosa che non serve è la sete di vendetta che alberga in certi ambienti baltici e polacchi – e comprensibilmente in gran parte della popolazione ucraina – perché la pace autentica non si costruisce su queste basi. E in prospettiva, come ricordano Kissinger e Merkel, la Russia post-bellica è bene che sia ancorata all’Europa.

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