Una corsa a ostacoli segnata da inversioni di rotta, errori marchiani, ritardi causati da scontri all’interno della stessa maggioranza, attacchi alla Ragioneria dello Stato. Nel merito, tante promesse mancate – dalla “cancellazione della Fornero” alla flat tax per tutti – e misure copiate da governi precedenti, con l’unica eccezione della scure sul reddito di cittadinanza. La prima sessione di bilancio del governo Meloni si è chiusa giovedì 29 dicembre con la fiducia al Senato sulla manovra (107 sì, 69 no e un’astensione). Il percorso è stato tanto breve – 38 giorni dal via libera in consiglio dei ministri al voto finale in Parlamento – quanto accidentato. [QUI TUTTI GLI ARTICOLI DEL FATTO.IT]

I ritardi e i dietrofront – Sia nel 2020 sia nel 2021 il via libera definitivo alla legge di Bilancio è arrivato il 30 dicembre. Da questo punto di vista Giorgia Meloni non ha fatto peggio dei predecessori, tanto più che nessun’altra legislatura è iniziata in ottobre e dall’ingresso nell’euro nessun altro esecutivo si è insediato ben oltre la data entro la quale andrebbe presentato alla Ue il Documento programmatico. In compenso il governo ha la responsabilità di una serie di ritardi in corso d’opera che hanno ulteriormente compresso il tempo a disposizione dei parlamentari per esaminare il testo. La via crucis è iniziata a metà dicembre: il 13 il relatore Roberto Pella (Fi) ha fatto sapere che gli emendamenti governativi sarebbero arrivati entro venerdì 16. Poco dopo però sono iniziati gli scricchiolii: l’azzurro Giorgio Mulè ha anticipato che la contestata norma sul pos sarebbe stata modificata in accordo con Bruxelles. Il 15 il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto ha ventilato l’ipotesi di uno scudo penale per i colpevoli di reati fiscali scatenando la protesta delle opposizioni. E i tempi si sono allungati. Il deposito degli emendamenti del governo è stato rinviato a sabato 17, ma metà del pacchetto si è materializzato in commissione Bilancio solo la sera di domenica 18. Quando la premier è stata costretta ad ammettere la marcia indietro sui pagamenti elettronici. Il ministro Giancarlo Giorgetti (Lega) ha dato la colpa dei ritardi alla presidenza della Camera – ovvero il leghista Lorenzo Fontana – che “ha chiesto lo spacchettamento del maxiemendamento per omogeneità di materia”.

Un altro corto circuito è andato in scena il 20 dicembre, quando erano attesi gli emendamenti dei relatori dopo una seduta notturna della commissione Bilancio durata 11 ore e conclusa senza alcun voto. Quella mattina Il Fatto Quotidiano ha dato notizia dell’inserimento nel testo di un colpo di spugna su dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e omessi versamenti di Iva e ritenute per chi avesse aderito alla “pace fiscale”. Le opposizioni hanno annunciato barricate contro l’ipotesi di concedere l’estinzione dei reati fiscali, i partiti di maggioranza si sono rimpallati la responsabilità. Alla fine Meloni e Giorgetti hanno concordato che non era il caso di procedere e non se n’è fatto nulla (ma secondo il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Tommaso Foti lo scudo potrebbe entrare in un altro provvedimento). All’alba del 21 dicembre, dopo un’altra notte di lavori e bagarre in commissione, è stato dato mandato ai relatori per l’approdo in aula. Centinaia di emendamenti delle opposizioni sono stati accantonati e mai discussi. Ma il peggio doveva ancora arrivare: quella sera si è scoperto che l’emendamento del Pd per ripianare con 450 milioni i conti dei Comuni, approvato qualche ora prima, era senza coperture.

I 45 errori (più uno) – Non è stato il primo errore imbarazzante: un infortunio ancora peggiore era successo tre giorni prima, quando il governo, costretto a cancellare in extremis l’articolo in cui stabiliva una soglia sotto la quale sarebbe stato permesso di non accettare pagamenti elettronici, ha eliminato in un colpo solo anche l’innalzamento del tetto al contante (che invece doveva rimanere). “Un refuso“, ha detto Giorgetti, che se ne è “assunto la responsabilità” – salvo specificare che si trattava di “un errore della Ragioneria dello Stato“. Il dipartimento del Mef ha avuto modo di togliersi qualche sassolino dalle scarpe il 22 dicembre, quando ha chiesto correzioni non solo sui 450 milioni non coperti ma anche su altri 44 emendamenti mal scritti e da riformulare “per escludere effetti negativi sui saldi di finanza pubblica“. Imponendo il ritorno della manovra in commissione.

La nota di 18 pagine firmata dal Ragioniere generale Biagio Mazzotta è un florilegio di rilievi non solo formali: ci sono anche sonore bocciature che evidenziano una palese disattenzione riguardo all’impatto delle misure sui conti. Come sullo smart working prorogato fino a marzo 2023 per i “fragili”: “La proposta comporta oneri di sostituzione del personale scolastico non quantificati e privi della necessaria copertura finanziaria, pertanto si esprime parere contrario“, scrivono i funzionari (segue l’aggiunta di un nuovo comma con adeguati stanziamenti a valere sul solito Fondo per esigenze indifferibili). E ancora: l’aumento dei fondi per i premi ai dirigenti del ministero dell’Agricoltura “è foriero di generare o ampliare disparità di trattamento rispetto ad altri ministeri, con verosimili onerose richieste emulative“. “Non correttamente formulato sul piano tecnico” pure l’emendamento per rendere strutturale il bonus psicologo, mentre la norma sul nuovo Fondo per il contrasto agli svantaggi dell’insularità è una scatola vuota: “risulta di difficile attuazione” e “in mancanza di modifiche difficilmente potrà essere attuata”.

Ulteriori problemi li pongono i commi sulle nuove “Carta cultura giovani” e “Carta del merito”: per la Ragioneria va cancellata la frase in base alla quale nel 2023 il bonus ai 18enni “sarà assegnato mediante utilizzo delle risorse già impegnate nel 2022”. Per di più “per un mero errore materiale” quegli stessi commi hanno “abrogato un’autorizzazione di spesa inclusa nel ddl originario”, quella che doveva consentire al ministero dei Beni culturali di acquistare Villa Verdi (come il ministro Sangiuliano si era impegnato a fare a fine novembre). Su questo il governo ha dovuto intervenire last minute il giorno dopo, modificando una delle tabelle allegate al testo. Non è un caso se per giustificare il caos Federico Mollicone (FdI), presidente della Commissione cultura, ha chiamato in causa proprio “i funzionari del Mef e della Ragioneria generale” sostenendo che “nella seconda notte di voto non c’era nessuno, abbiamo dovuto mandare mail per avere risposte arrivate il giorno dopo”. Il titolare della Difesa Guido Crosetto mercoledì ha rilanciato, evocando “il machete” contro “chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e perdere tempo“.

Le promesse mancate – Tutta colpa della solita burocrazia che rema contro, insomma? La giustificazione di certo non regge se, allargando lo sguardo, si confrontano i contenuti della versione finale della manovra con le promesse elettorali. Chi ha votato per le destre sperando nell’aumento a 1000 euro delle pensioni minime propagandato da Forza Italia, nella quota 41” e nella flat tax anche per le famiglie (copyright Matteo Salvini) o nell’assegno unico incrementato “fino a 300 euro al mese per il primo anno di ogni figlio e fino a 260 euro dal secondo anno”, come previsto dal programma di FdI, è rimasto deluso. Dovrà accontentarsi di sanatorie e condoni fiscali che sottraggono alle casse dello Stato 3,6 miliardi lordi (1,7 netti), allargamento della tassa piatta solo per gli autonomi, taglio del 2% del cuneo fiscale se ha redditi sotto i 35mila euro (3% se non arriva a 25mila). Le pensioni più basse infatti saliranno solo a 600 euro, solo per gli over 75 e solo nel 2023. L’indicizzazione piena all’inflazione sarà riconosciuta solo a chi prende fino a quattro volte il minimo. Chi vuole lasciare il lavoro dovrà aspettare i 62 anni di età, oltre ad aver totalizzato 41 anni di contributi, e senza ulteriori interventi dal 2024 tornerà pienamente in vigore la legge Fornero. Opzione donna poi viene talmente ridimensionata che ne godrà solo qualche migliaio di lavoratrici caregiver, invalide civili o licenziate. E almeno 60enni, al netto del discutibile “sconto” di un anno di età per ogni figlio avuto. Quanto all’assegno unico per le famiglie, sale solo a 262 euro e solo per il primo anno di vita del bambino. Passati i 12 mesi, l’incremento spetta solo a chi di figli ne ha almeno tre. Disattesa anche la promessa di un “nuovo strumento che tuteli i soggetti privi di reddito, effettivamente fragili e impossibilitati a lavorare o difficilmente occupabili: disabili, over 60, nuclei familiari con minori a carico”. Era nero su bianco nel programma di FdI, ma la manovra si limita a sopprimere dal 2024 l’autorizzazione di spesa per il reddito di cittadinanza “nelle more di un’organica riforma delle misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva”

Le misure copiate – Saltata la norma sul pos, l’unica vera novità della prima legge di Bilancio del governo Meloni è proprio il colpo di spugna sul reddito, che l’anno prossimo sarà erogato solo per sette mesi ai presunti occupabili. Per il resto, tutte le misure principali sono “riciclate”: quelle contro il caro bollette sono la riproposizione degli aiuti di Draghi, lo stralcio delle cartelle sotto i 1000 euro l’aveva fatto anche il Conte 1, le rateizzazioni per chi non ha versato il dovuto somigliano da vicino a quelle messe in campo negli anni da Renzi, Gentiloni e poi Conte (i nuovi arrivati ci hanno aggiunto lo spalma debiti per le squadre di calcio), le decontribuzioni per le aziende che assumono donne e giovani sono identiche a quelle del Conte 2, i voucher lavoro rimandano al Berlusconi IV, l’aumento del tetto al contante l’aveva voluto pure Renzi (e prima ancora Berlusconi). Insomma: la manovra va in porto, l’esercizio provvisorio è scongiurato. Ma è un approdo inglorioso per chi ha passato mesi a garantire di esser “pronto” per guidare il Paese.

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