Il perché del suo nome, Edson. E soprattutto il perché del suo nomignolo, che lo rende riconoscibile da generazioni, in tutto il mondo. Il mito del padre, che da bambino voleva emulare e a cui, dopo il Maracanazo, la disfatta del Brasile nel 1950, promise: "Ci penso io a far vincere il mondiale". E poi tutta la carriera fuori dal campo, fino alle scintille con Diego, la sua nemesi
L’uomo in maglia azzurra è appena visibile al centro dell’inquadratura. Ha la faccia rivolta verso la sua porta e l’espressione grave di chi ha già capito come andrà a finire. La sua postura è sghemba, innaturale, sballata. Ha il corpo proteso in avanti in un gesto di resistenza così disperato da fare quasi tenerezza. Una situazione difficile da spiegare per uno che era stato soprannominato “Roccia”. In quel pomeriggio del giugno 1970 Tarcisio Burgnich è entrato nella storia. Ma dalla parte sbagliata. Non la scrive, la subisce. Un campione che diventa profeta del vangelo altrui. Perché alle sue spalle un uomo in maglia gialla sta fluttuando nell’aria. Da un’eternità. Non salta, ascende al cielo. Non segue lo scorrere del tempo, lo dilata, lo rallenta, lo arresta. Poi lo accelera improvvisamente. Quando la sua fronte si stampa contro il cuoio del pallone la transustanziazione pagana è ormai completata. Prendetene e gioitene tutti. In quel momento il ragazzo con il dieci sulle spalle ha smesso di essere un uomo. È diventato divinità, nume tutelare non di un popolo non diviso in base alla nazionalità ma unito dalla stessa identica fede. Il suo verbo non si predica. Si ammira. Una serpentina dietro l’altra. Un sombrero dopo l’altro. La sua evangelizzazione è totale. Chi lo guarda si converte al suo monoteismo. Non avrai altro signore al di fuor di lui. Ma pronuncerà spesso il suo nome invano. Va così in ogni partita. Solo che stavolta è diverso.
Quel gol segnato all’Italia nella finale del Mondiale del 1970 diventa prima icona e poi santino. Ovunque proteggi. Tanto che il giorno dopo il cronista del Sunday Times ha deciso di metterlo nero su bianco: «Come si scrive Pelè? D-I-O». Un’esagerazione. O forse no. Perché anche quel nomignolo di O’ Rey ha iniziato da tempo a stargli stretto. Un monarca per diritto divino. Che nessuna rivoluzione riuscirà mai a rovesciare. Quello di Pelé è un racconto personale che si fa collettivo. Un poema omerico che si trasmette oralmente. Quasi sempre con qualche aggiunta. Più raramente con qualche sottrazione. Perché dove non arrivano quei vecchi VHS, dove finiscono quelle immagini così sgranate, arriva la leggenda. Raccontare Pelé vuol dire raccontare un’era. Quella dei nostri padri e delle nostre madri. Dalla paura per la guerra alla speranza del benessere. Dai sogni in bianco e nero a quelli con colori sempre più vivaci. Dagli stati chiusi ermeticamente alla globalizzazione. Il brasiliano è l’uomo del passato che ci ha fatto vedere il futuro. Si è fatto prima simbolo e poi testimonial. Di tutto. Un marchio in carne e ossa. L’unico capace di diventare famoso tanto quanto la Coca Cola.
La genesi risale al 23 ottobre 1940. La cometa si ferma sopra Três Corações. E non potrebbe essere altrimenti. Perché quello che allora è poco più di un paesino fatiscente nel sud est del Brasile tiene in modo particolare a far sapere di essere devoto ai Santissimi Cuori di Giuseppe, Maria e Gesù. L’elettricità è arrivata da talmente poco tempo che papà Joao Ramos e mamma Maria Celeste hanno un’intuizione. Chiamano il loro bambino Edson. Come a ringraziare per quel dono così salvifico. Sono anni famelici. Tasche vuote. Pance vuote. Esistenze da riempire. Il ragazzino cresce con una consapevolezza. Non ha nulla da perdere. Nel vero senso della parola. Suo padre è un calciatore. Solo che ha dovuto smettere per un infortunio al ginocchio. Il suo soprannome, Dondinho, era stato ripetuto da centinaia di tifosi. Ma in bocca a suo figlio suona in maniera così diversa.
Edson cresce con un sogno. Emulare suo padre. Vuole diventare grande come lui. Vuole diventare forte come lui. E come lui vuole indossare il 9 sulle spalle. Ancora non sa che lo supererà in tutto. Anche nel numero. La frugalità diventa carta moschicida. Liberarsi sembra impossibile. I soldi evaporano in fretta, a casa c’è sempre bisogno di qualcosa. Così Edson deve trovarsi un lavoretto per contribuire al bilancio familiare. Inizia a fare il lustrascarpe. È l’esagerazione del simbolismo. Spesso accompagna i nonni che trasportano legname. Hanno un carro. E lui ama salire in groppa al cavallo per qualche minuto. Ma senza stancarlo, visto che è più una fonte di guadagno che un animale domestico. Quando torna a casa si trova davanti pomeriggi interminabili. Così si mette a giocare. Prende a calci un’oggetto che nella sua fantasia assomiglia a un pallone. In pratica è un calzino riempito di vecchi stracci e fogli di giornale. Quando va bene viene aggiunto anche un frutto. Qualcuno giura che si tratti di un pompelmo. Altri assicurano che si tratta di un mango. Non cambia niente. È un’immagine così forte che crea uno stereotipo, che diventerà la base per la narrazione standardizzata di ogni talento sudamericano. La prima svolta arriva all’improvviso. Quando Dondinho gioca nel Vasco de Sao Lourenco si porta dietro Edson agli allenamenti. Il figlio lo ammira, ma viene stregato dalla figura di Bilé, il portiere della squadra. Spesso il ragazzo si mette fra i pali e quando riesce a deviare un tiro si compiace con sé stesso urlando: «Grande Bilé!». Solo che ha un accento così marcato che è quasi impossibile da estirpare. E ha anche qualche piccolo difetto di pronuncia. La sua bocca storpia quel nome in «Pelé». Un altro ragazzino osserva, sorride, memorizza. Poi sputa contro Edson con quelle due sillabe: «Pelé». Ancora. E ancora. E ancora. Stando ben attento a far tintinnare il più possibile quella componente canzonatoria. Vuole fare male. E ci riesce. Eppure non sa ancora che quel nomignolo dispregiativo si trasformerà in un superlativo assoluto, apice di una parabola che diventerà metro di giudizio del talento. Quelle due sillabe gli si appiccicano addosso. E non lasceranno più.
L’annunciazione del suo destino arriva il 16 luglio del 1950. Il Brasile affronta l’Uruguay nella finale dei Mondiali. Si gioca al Maracanà. La partita è un incidente di percorso, un piccolo supplizio da sopportare prima di essere proclamati campioni. O almeno così pensano i brasiliani. Sono convinti della vittoria. Tutti quanti. Lo stadio è tappezzato di striscioni. Sopra c’è scritto: «Saluti ai campioni del Mondo». Prima del fischio di inizio i Generale Angelo Mendes de Morais, Prefetto del distretto federale, prende il microfono e arringa la folla. «Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti. Voi, che non avete rivali in tutto l’emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto come vincitori!». A portare in vantaggio il Brasile è Friaça. Le aspettative sgonfiano i muscoli dei brasiliani, accelerano i loro battiti, impiombano i loro piedi. In meno di un quarto d’ora Schiaffino e Ghiggia ribaltano il risultato. Viene giù tutto. Un Paese raccoglie i cocci dei suoi sogni, prova a chiudere un incubo nel cassetto. Quella giornata passa alla storia come il Maracanazo. Una decina di tifosi brasiliani vengono colti da infarto sulle tribune. Almeno due decidono di suicidarsi gettandosi dalle gradinate. Dondinho invece è nella sua stanza. Ma non c’è anestetico per addormentare quel dolore. Inizia a piangere a dirotto. Dice di star vivendo il giorno peggiore della sua vita. Edson si avvicina al padre. Ha dieci anni e una qualche strana forma divinatoria. Lo accarezza e gli sussurra di non piangere. Perché tanto ci penserà lui a far vincere un Mondiale al Brasile. Il giuramento si consuma davanti a un quadruccio di Gesù Cristo. E per quel ragazzino estremamente credente diventa destino.
L’incontro che fa avverare la profezia arriva quattro anni più tardi. Waldemar de Brito, un autentico rabdomante del talento, si accorge del ragazzino. Telefona al Santos, parla con la dirigenza. Dice una frase che sembra una sparata, un grido delirante di un mitomane: «Ho trovato uno che può diventare il più forte del mondo». Poi porta Pelé al campo di allenamento del club. Quel ragazzo sembra così dannatamente uguale a tutti gli altri. «A guardarlo infagottato nella tuta Pelé non aveva nulla di speciale, né i muscoli né la statura. In campo sapeva fare tutto, per scienza infusa. Nessuno gli aveva insegnato nulla», scrive Gianni Mura. Ed è vero. Anni di calci a frutta avvolta in pedalini gli ha dato un tocco fuori dal comune. La fantasia di quel bambino che giocava nella polvere non è rimasta in forma astratta, ma si è trasformata nella ricerca di una soluzione alternativa a quella più comune. Lui ora fa cose diverse da tutti perché pensa in maniera diversa da tutti. La firma sul contratto è immediata. Poi dopo un anno nelle giovanili ecco la prima squadra. Dondinho prende da parte il figlio e gli ripete tre comandamenti. Primo: «Il calcio è per chi ha fegato». Secondo: «Non pensare mai di essere migliore di qualcun altro». Terzo: «Sul campo siete tutti uguali». È una bugia. Perché ci sono i calciatori. E poi c’è suo figlio. Lui ha un’altra tecnica, un’altra visione, un’altra sensibilità. La sua specialità era non avere una specialità. Ogni suo tiro è naturalmente attratto dalla porta. Ogni sua finta apre un universo parallelo che fagocita l’avversario, che apre una possibilità inesistente solo un minuto prima. Per il primo gol non bisogna aspettare molto. Arriva già all’esordio, in amichevole. 7-1 al Corinthians di Santo André. Pelé riceve in area ma è circondato. Fa niente. Perché lui un corridoio l’ha già visto. Colpisce secco. Il pallone si deforma contro il suo piede e inizia a correre spedito. Non si ferma più. Passa sotto il fianco del portiere Zaluar, si strofina contro la rete. Gol. Ne metterà in fila altri 1280. Una quantità insensata. Una dose massiccia che non creerà mai assuefazione. Anche perché per veder giocare Pelé serve fortuna. Resterà sempre in patria. Le sue imprese arrivano filtrate e frammentate. Contribuendo così a creare la sua leggenda. Come nel 1958. Edson gioca 38 partite. E va a segno 58 volte. Di destro. Di sinistro. Di testa. Al volo. Dopo aver saltato il portiere. Su punizione.
La contabilità delle sue reti diventa parte essenziale della sua carriera. Per qualcuno è arrotondata per eccesso. Secondo altri in quella lista ci sarebbero anche dei gol di dubbia assegnazione. Ma si tratta solo di eccesso di zelo. Nello stesso anno prende parte al suo primo Mondiale. Just Fontaine è il miglior marcatore del torneo. Ma Pelé è qualcosa di soverchiante. Segna al Galles ai quarti, 3 alla Francia in semifinale, due alla Svezia in finale. La notte Edson non riesce a prendere sonno. Pensa ai suoi genitori. «Avranno ascoltato la partita alla radio?», di domanda. «Avranno visto i miei gol in televisione?», si tormenta. Per i brasiliani è una gioia indicibile ma lontana, arrivata in un Paese sconosciuto. Un successo luminoso che non riesce a lavare l’onta del Maracanazo. Da quel giorno Pelé e il Brasile tendono a sovrapporsi. In maniera sempre più accentuata. Parlare dell’uno vuol dire necessariamente parlare dell’altro. Il suo talento smette di essere un fatto personale. Diventa bene condiviso, elemento di unità nazionale. Tanto che il Governo decide di nominarlo “Tesoro del Brasile” in modo da disinnescare le attenzioni dei club europei. Nel 1962 la storia si ripete. Ma solo nominalmente. Il Brasile è campione del Mondo per la seconda volta consecutiva. Pelé è un’assenza che si trasforma in presenza fissa. Nelle seconda partita il 10 si infortuna. Viene sostituito da Amarildo. La Seleção vince. Ma le notizie non sono buone. Il problema è più serio del previsto. Pelé non scenderà più in campo. E per qualche anno non avrà neanche la medaglia d’oro. Lo sport si trasforma in letteratura. D’altra parte in quello che viene definito il “cammino dell’Eroe” c’è sempre un attimo in cui tutto sembra perduto.
Quel momento arriva nel 1966. «La regina d’Inghilterra era Pelé», scriveva Venditti. Non è vero. Sua Maestà è Geoff Hurst. Il Brasile esce addirittura al Girone. Due punti in totale. Dietro a Portogallo e Ungheria. «È stato il momento peggiore della mia vita», dice Pelé. Ed è vero. Solo che non ha neanche tempo di pensarci. Edson continua a segnare. Un gol dietro l’altro. Dice che «un rigore è un modo meschino per segnare». Intanto il suo gol numero mille arriva proprio dal dischetto Lo segna ad Andrada. E il portiere se lo fa stampare sui biglietti da visita. L’uomo che ha subito ó milésimo. Un merito riflesso che diventa una riga di curriculum. D’altra parte quello non è più un attaccante. È un sentimento. Quando vola in Nigeria per una serie di amichevoli viene firmato un armistizio di due giorni con il Biafra. Perché tutti dovevano avere la possibilità di ammirarlo. Prima di riprendere a spararsi. In un’altra esibizione in Colombia viene espulso. È un affronto, lesa maestà. Durante la partita gli organizzatori dicono all’arbitro che può bastare così, che è inutile che continui a fischiare. E lo sostituiscono immediatamente. Nel 1970 l’ultima grande gioia. Con quell’ascensione al cielo nell’area dell’Italia che diventa cartolina e copertina, che si trasforma in sintesi di un’esistenza, di una rivoluzione sportiva. La discesa della sua parabola calcistica lo porta ai New York Cosmos. Ma solo perché era intervenuto il segretario di Stato americano Henry Kissinger. Il dio del calcio nella patria del Soccer. Una bestemmia. O quasi. A 37 anni dice basta. Perché i miracoli se ripetuti troppo a lungo diventano prestidigitazione semplice.
Per lui inizia una nuova vita. Diventa testimonial di praticamente ogni prodotto. Ci mette la faccia sempre. Anche se dietro un giusto compenso. Pelé non fa parte di quella che Alberoni ha definito “élite senza potere”. Lui con il potere ci flirta. Fino a impersonificarlo. È stato ambasciatore più o meno di tutto. Dell’Onu, dell’Unicef, dell’Unesco. Anche della Fifa. Un compito che ha svolto in maniera molto democristiana, elevando a “più forte del Mondo” il calciatore di riferimento del Paese che visitava. Qualcuno lo ha definito un monumento al buonismo. Romario «Un poeta. Quando tiene la bocca chiusa». Nel 1995 viene nominato ministro straordinario per lo sport brasiliano. Maradona diventa la sua nemesi. Il genio in doppiopetto contro il genio del popolo. Pelé non snobba Diego. Ne pensa solo tutto il male possibile. Dice di essere stato più completo dell’argentino. Dice di aver segnato in tutti i modi. Mentre “l’altro” aveva avuto bisogno della mano per segnare di testa all’Inghilterra. Nel 2009 Diego è ct dell’Argentina. Pelé lancia l’affondo: «Maradona non è davvero un esempio per i giovani – dice – ha avuto la chance di ricevere un dono da Dio, quello di saper giocare a calcio: nonostante la sua vita molto sregolata c’è ancora gente disposta a dargli un lavoro. Se avessero un po’ di coscienza, non lo farebbero più. Se non cambia, non avrà mai più un lavoro. È stato un grande giocatore ma non è un esempio».
Maradona risponde pescando nel machismo: «Pelé? Parla lui che ha perso la verginità con un uomo». È il trash che divora le sacre scritture del pallone. Un sincero disprezzo reciproco che va avanti per anni. Fino a quando non decidono di riappacificarsi. A favore di telecamere. Diego bacia Edson sulla fronte. È la fine della guerra fredda. Quando Maradona si spegne improvvisamente Pelé scrive: «Oggi so che il mondo sarebbe molto migliore se potessimo paragonarci di meno e cominciassimo ad ammirarci di più». E ancora: «La tua rapida partenza non mi ha permesso di dirtelo, quindi scriverò: ti voglio bene Diego». Un messaggio che forse adesso Edson potrà sussurrargli. Perché la sua vita si è spenta oggi. La sua leggenda, invece, è imperitura.