Franco Berrino, già direttore del Dipartimento di medicina preventiva e predittiva dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, insieme a Enrica Bortolazzi cofondatrice dell’Associazione La Grande Via di cui Berrino è presidente, hanno appena pubblicato il libro La foresta di perle, edito da Solferino, che indica già nel sottotitolo il suo programma: “Come ritrovare il nostro contatto con la Madre Terra”
Un albero salverà il mondo. O meglio, se impariamo a piantarne ognuno nella nostra vita, aiuteremo a fare respirare i nostri ambienti, rientreremo in contatto con la natura e tutto questo, per numerose ragioni squisitamente scientifiche, potrebbe dirottare l’umanità su un futuro meno minaccioso per l’equilibrio dell’ecosistema e ben più roseo. Franco Berrino, già direttore del Dipartimento di medicina preventiva e predittiva dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, insieme a Enrica Bortolazzi cofondatrice dell’Associazione La Grande Via di cui Berrino è presidente, hanno appena pubblicato il libro La foresta di perle, edito da Solferino, che indica già nel sottotitolo il suo programma: “Come ritrovare il nostro contatto con la Madre Terra”. Perché l’allontanamento dell’umanità dal suo habitat naturale, le sue case immerse in città di asfalto e cemento è una delle malattie che impedisce alle persone di vivere più sane e serene.
D’altronde, il dottor Berrino ha organizzato nelle estati 2021 e 2022 con la sua associazione La Grande via, in collaborazione con il Parco delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, una serie di eventi di immersione in foresta, in cui gruppi di venti-trenta persone trascorrevano uno o più giorni nelle foreste casentinesi per un’esperienza di contatto con la natura che comprendeva percorsi di trekking, pernottamento in foresta, momenti di rilassamento, di meditazione, letture e scrittura di poesie e pasti sani a base di cereali integrali, legumi, verdure, frutta, cucinati secondo le ricette della cucina Macromediterranea®. L’obiettivo era di far percepire la natura con tutti i sensi: vista, udito, odorato, tatto, gusto. Come gli autori del libro raccontano: “Prelevavamo campioni di saliva e misuravamo la pressione e il polso il venerdì mattina prima di partire e la domenica mattina, dopo due notti in foresta. Un questionario (POMS, Profile of Mood State) ci informava sulla percezione soggettiva dello stato di benessere”. I risultati? Le immersioni nella foresta riducono significativamente la secrezione di cortisolo, del 30% circa (segno di riduzione dello stress), e la pressione sistolica (moderatamente la diastolica), mentre aumentano la variabilità del ritmo cardiaco, un segno molto positivo per la salute. L’esame dei questionari ha rivelato un aumento della sensazione di vigore fisico e una riduzione importante di tutti gli indicatori di disagio psicologico: tensione, stanchezza, confusione, aggressività e depressione.
Dottor Berrino, la prendo un po’ alla larga: il tipo di cibo che oggi consumiamo è già un primo segno di quanto ci siamo allontanati da un contatto ideale con la natura.
“Effettivamente mangiamo sempre meno cibo naturale. Il cibo ultralavorato dall’industria rappresenta più della metà di quello che si mangia in Nordamerica e il 25-30% del cibo europeo. E più ne mangiamo più ci ammaliamo e moriamo. Di cosa si tratta? Di tutti i cibi pronti da scaldare al microonde, tutte le minestre in busta o in scatola, la pasticceria industriale, di bevande industriali, sia quelle zuccherate sia le “zero”, dei salumi, wurstel, carni in scatola, snack dolci e salati, sostituti del pasto per dimagrire, di gran parte dei pani confezionati, dei cibi trattati con additivi sintetici, coloranti, conservanti, emulsionanti… A parità di età e di altre cause di morte, chi ottiene metà delle calorie che consuma da questi cibi aumenta la mortalità del 40% rispetto a chi ne mangia raramente. E ancora: un bicchiere al giorno di bevande industriali aumenta il rischio di morte, soprattutto per diabete e malattie di cuore, del 20% circa. Sono i risultati dei grandi studi epidemiologici pubblicati negli ultimi 5-6 anni”.
E quindi…
“… Dobbiamo mangiare i cibi e non le trasformazioni industriali dei cibi. Compriamo cereali integrali e una varietà di legumi, verdure, frutta e semi oleaginosi e… cuciniamoceli! Scegliamo i nostri cibi, non lasciamo che siano gli interessi finanziari dell’industria alimentare a sceglierli per noi, e mangiamo meno carne, perché l’allevamento di animali per la produzione di carne e d latte è oggi una causa di riscaldamento del pianeta altrettanto importante della combustione di petrolio per produrre energia. Il metano prodotto dai bovini, infatti, è un gas serra più potente della CO2 e stiamo disboscando le foreste tropicali per fare spazio a enormi estensioni di monocolture di soia e di mais per nutrire gli animali”.
Nel vostro libro indicate come in ogni credenza religiosa, mito o visione spirituale, c’è sempre l’idea che dalla Terra tutti noi veniamo e ne siamo nutriti e per questo va non solo rispettata, ma amata.
“È il compito affidatoci dal creatore – coltivarla e custodirla – quindi non sfruttarla e renderla sterile come stiamo facendo. Si stima che oggi l’80% della terra coltivata non sarebbe produttiva senza l’uso intensivo di fertilizzanti. Non c’è più l’humus, quel miscuglio colloidale di sostanze organiche prodotto dalla decomposizione da parte di batteri vermi e insetti, di resti vegetali e animali. Abbiamo infatti avvelenato la terra con pesticidi e diserbanti e con l’aratura profonda. La terra non avvelenata è viva, respira; in un solo centimetro cubo di humus ci sono decine di milioni di microbi, sono microbi che fissano l’azoto atmosferico e che recuperano dai vegetali morti e dai minerali del terreno tutte le sostanze necessarie a far nascere nuove piante, nuova vita. Se i batteri sono morti l’azoto e le altre sostanze necessarie all’agricoltura dobbiamo aggiungerle noi con i fertilizzanti, e l’azoto cosparso sui campi genera ossido nitrico, un gas serra molto più potente della CO2. Tutti i popoli indigeni, prima che i colonizzatori si impadronissero delle loro terre, avevano sviluppato convenzioni per la gestione comunitaria della terra, per la caccia, la pesca, le coltivazioni e la gestione delle foreste, consuetudini di autoregolazione trasmesse da generazione a generazione. Convenzioni che non implicavano la proprietà”.
E quali lezioni utili per noi possiamo ricavare da quelle esperienze?
“Per esempio, diversi studi, in particolare quelli del premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, hanno mostrato che i sistemi indigeni di gestione delle risorse possono essere migliori di quelli dei governi centrali e della privatizzazione. Per gli aborigeni australiani, come per gli indiani d’America e i popoli delle foreste africane la convivenza con le altre componenti della natura condusse a una profonda spiritualità. Tuttora noi umani siamo in simbiosi con la natura, anche se ce ne siamo dimenticati il nostro corpo e la nostra mente ne hanno bisogno, tant’è vero che subiamo l’incanto del mondo non antropizzato”.