di Carmelo Zaccaria

Il ritorno al privato, dopo l’intensa stagione di attivismo politico che aveva caratterizzato la fine degli anni Settanta, è passato alla storia con il termine di “riflusso”, cioè quel repentino rovesciamento di convinzioni e modi di essere che mirava all’evasione e alla spensieratezza.

Come d’incanto si passò dal mito di Che Guevara alle piroette acrobatiche di John Travolta, alla locomotiva di Francesco Guccini si preferì Stayin’ Alive dei Bee Gees. Si decise che era giunto il momento di bandire l’imperante ascetismo culturale dell’epoca, di fare a meno della noia mortale dei dibattiti e dei cineforum per lasciarsi finalmente ammaliare da simbologie e posture meno asfissianti, meno barricadiere.

Una volta spenta la tensione ideale di una intera generazione disillusa, la rivoluzione fu messa in modalità stand-by e si andò alla ricerca di una esistenza più semplice e giocosa. Il “riflusso” fu percepito come un universale liberi tutti, ma fu comunque un ripiego, una regressione, una resa al già dilagante consumismo e all’arrivismo più spregiudicato. Il contesto sociale odierno, pigro e conformista, è una diretta conseguenza di quel ripiegamento, in quanto quell’anelito al privato non ha liberato granché l’individuo moderno, ma lo ha imprigionato nella degradante ostentazione di se stesso.

Ognuno pensa a rivendicare l’unicità del proprio mondo personale, mentre questo mondo gli rimane sempre un po’ più stretto, asfissiante. Il sociologo Giuseppe De Rita ha chiamato questo fenomeno “soggettivismo etico”, una moltitudine di individui svuotati e solitari, che non aspirano a costruire alcun progetto comune di società.

Prendiamo la scolaresca che umilia la professoressa sparandole addosso i pallini. E’ sempre accaduto, da che mondo è mondo, che gli studenti si siano atteggiati a guasconi, ma poi ci si vergognava di pubblicizzare l’accaduto, un po’ per riserbo, un po’ per vergogna. Oggi si fanno le bravate più spregevoli con l’intento di divulgarle. Si annunciano omicidi e sevizie in video per essere visibili, solo per sentirsi vivi. Attraverso la prevaricazione dei social e il loro gioco narcisistico ci abituiamo a giustificare tutto.

Creiamo una società trasparente, senza pathos, quindi falsa perché la verità è un percorso faticoso, imperscrutabile, che schiviamo a ogni costo. La vita ridotta a serie tv ci mostra e ci autorappresenta in modo distorsivo comunicando solo ciò che ci piace, ciò che gli altri approvano cercando di nascondere i nostri lati più oscuri, le nostre debolezze, le nostre grane. Lì dentro ci giudichiamo e ci assolviamo da ogni peccato, mentre, senza ombre e senza storture, la vita è poco credibile, ci fa regredire in un mondo fiabesco e infantile dove diventiamo tutti aspiranti principi e impavide cenerentole.

Scrive il filosofo Byung-Chul Han: “In questo spazio visuale autoerotico, in questa interiorità digitale, non è possibile nessuno stupore. Gli uomini trovano piacere solo per se stessi”. Attratti dal nostro ombelico, ossessionati dal promuovere la nostra encomiabile eccellenza inghiottiamo qualsiasi panzana, inganno o idiozia virale perché abbiamo perso la dimestichezza nel difenderci dalla prevaricazione del potere che non ha mai smesso di intorbidire, di ingannare, di creare un mondo parallelo a propria immagine.

Ci fidiamo così tanto delle narrazioni divulgate sullo schermo che sorvoliamo sulla pretestuosità di certe dichiarazioni, sulla smanceria di certi sorrisi compiacenti avendo col tempo dissipato tutti gli strumenti critici e cognitivi, ogni supporto etico, in grado di poter argomentare e opporre il nostro sdegno.

Il riflusso di quegli anni si è trasformato in una torbida risacca, una malinconica bonaccia che avvolge la modernità dentro una tagliola di relazioni fittizie. L’effetto analgesico di questo torpore si nota: quanto poco spesso ormai ci indigniamo restando spesso impotenti di fronte alla soverchiante mole di lusinghe e pratiche corruttive a cui assistiamo. Siamo parte di una folla distratta e abulica.

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