Nel 2005, quando Angela Merkel fu eletta per la prima volta Cancelliera federale – prima donna nella storia a ricoprire la carica – la Società per la Lingua Tedesca (“Gesellschaft für deutsche Sprache”) elesse “Bundeskanzlerin” parola dell’anno. Nella motivazione si legge: Il suffisso femminile “-in” nei titoli professionali e personali non è una novità, eppure solo pochi decenni fa, anche una donna a capo del governo sarebbe stata chiamata “Cancelliere” federale. Al più tardi dall’inizio della campagna elettorale per le elezioni anticipate del Bundestag, con la candidatura al cancellierato di Angela Merkel, si è affermato anche il termine “Cancelliera federale”.
Che c’è di strano? Nulla. Il mondo cambia, accadono fatti nuovi e nasce anche l’esigenza di esprimere nuovi concetti. La lingua è sempre in ritardo, ma anch’essa si evolve e cambia in funzione dei mutamenti della realtà. Lo stesso vale per la forma femminile di tutte quelle attività e professioni un tempo svolte esclusivamente da uomini, alle quali hanno in seguito avuto accesso anche le donne. Come la professione di “Cancelliera Federale”.
È – o dovrebbe essere – di una normalità disarmante. D’altra parte, la declinazione al femminile di titoli e professioni non è certo un fenomeno recente: Laura Bassi, grande fisica bolognese del ‘700, tra le prime donne a detenere una cattedra universitaria, fu a suo tempo definita accademica, dottrice e professoressa (e non professore). In epoca medievale, le scienziate della scuola medica salernitana (le cosiddette mulieres salernitanae) erano definite “sanatrices” (e non sanatores). E, d’altra parte, nessuno oggi si sognerebbe di definire Grazia Deledda uno scrittore, Frida Kahlo un pittore e Rita Levi Montalcini uno scienziato.
Eppure, l’incantesimo ad un certo punto dev’essersi rotto, se ancora nel 1986 durante il primo governo Craxi (e quasi 20 anni dopo il ’68) si avvertì la necessità di emanare le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” di Alma Sabatini. Vi si trovano indicazioni che, a prima vista, dovrebbero essere intuitive e scontate – come quella di chiamare amministratrice, direttrice e procuratrice una donna che ricopra le rispettive cariche – e che, invece, vennero subito ampiamente sbeffeggiate, anche dalle pagine de La Repubblica, già allora preclaro esempio di pseudoprogressismo.
Questa normalità linguistica, ovviamente benedetta anche dall’Accademia della Crusca ed ormai tristemente nota con l’epiteto “linguaggio di genere”, è più che mai oggetto di un aspro quanto ridicolo scontro politico. Durante la XVII legislatura, il linguaggio di genere è entrato in pompa magna nell’agone politico per iniziativa della presidente della Camera Laura Boldrini, ricevendo automaticamente il crisma “di sinistra”. Di riflesso, una volta politicizzato l’argomento si è verificato l’effetto paradossale (se non psicopatologico), per cui alcune donne, prevalentemente di destra ma non solo, hanno cominciato a rivendicare l’uso della forma maschile.
La prima presidente del Consiglio donna della storia italiana ci ha tenuto subito a precisare che preferisce essere chiamata “il Presidente”. Motivo? Mistero – ci è dato solo sapere che non si tratterebbe di “scelta ideologica”. Se è così, ci resta solo il sospetto che si tratti di genuina incertezza di genere. La pensa così anche la sua bombastica ministra del turismo, Daniela Santanché, che preferisce essere chiamata “ministro”, ma solo per una questione di gusti. La lista di argomentazioni di profondità insondabile è lunga: c’è ad esempio l’ex ministra Erika Stefani (Lega), che preferisce il maschile perché “Nella mia vita ho conquistato dei traguardi, sono avvocato, senatore e ministro. Non ritengo invece una conquista fare finte battaglie terminologiche di nostalgiche femministe.”
Le fa eco la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi: “Io non credo che aggiunga qualcosa nella narrazione del femminile, anzi, penso che concentrandosi sulla questione linguistica si perda di vista un altro tassello fondamentale nella crescita: per esempio, il racconto della grandezza delle donne.” E che dire dell’ex ministra Lezzi (M5S), per la quale “per il Movimento 5 stelle questo e altri problemi di genere sono veramente non essenziali”, o dell’ex ministra Trenta, secondo cui “Le istituzioni debbono lavorare in modo più pragmatico sui diritti delle donne. La strada è lunga, le parole spesso danno l’illusione di percorrerla, invece sono solo pochi passi, importanti ma pochi.” Tanto vale non fare neanche quelli.
Certo, in alcuni casi specifici dietro una scelta apparentemente curiosa possono celarsi motivazioni drammatiche, come nel caso dell’ex presidente del Senato Casellati, la quale insistette a farsi chiamare “Il Presidente”, perché altrimenti “avrebbe dovuto cambiare la carta intestata del Senato, con costi evitabili.”
Indubbiamente ne esce un quadro sconcertante: pensate ad un marziano che atterra in Europa, va in Spagna e gli spiegano che una donna è definita “ministra” e un uomo “ministro” – così funziona la lingua. Poi va in Germania e gli insegnano che le donne sono dette “Ministerin” e gli uomini “Minister”, nel Regno Unito gli spiegano che lì hanno tagliato la testa al toro eliminando i generi. Il marziano comincia a capire il meccanismo, quando infine arriva in Italia, dove gli illustrano che bisogna sempre dire ministro e il presidente, perché altrimenti qualcuno potrebbe pensare che si tratti di donne non emancipate che pensano di esserlo piegando le parole a loro piacimento ma in realtà non lo sono e che comunque il loro valore non risiede nella scelta di linguaggio. E di colpo non capisce più nulla.
Senza arrivare ad ipotizzare un’invasione marziana, basta realizzare che dalla prospettiva di un paese come la Germania (e tanti altri), in cui una donna viene chiamata notaia e non notaio con la stessa logica con cui un cavallo viene chiamato “cavallo” e non “gatto”, tutto questo brusìo inconsistente su scelte di linguaggio ha dello psicotico. Certo, è ridicolo farne una battaglia politica “di sinistra”. Certo, ci vuole tempo per abituarsi a dire “avvocata” o “sindaca”, ma vogliamo parlare di cacofonie come “smartphone”, “Dazn” e “padel”? Anche “Bundeskanzlerin” all’inizio suonava strano. Dopo 15 anni di governo Merkel è diventato quasi strano sentire la forma maschile.