Moda e Stile

Morta Vivienne Westwood, una delle donne più influenti della moda e del costume. Addio alla ‘Regina punk” d’Inghilterra

È scomparsa tre mesi e mezzo dopo la "vera" regina d'Inghilterra, Elisabetta II, che con ammirazione le aveva conferito la spilla dell'Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico. Al termine della cerimonia Vivienne si divertì a giocare provocatoriamente con la sua gonna e, complice il vento di Londra, i fotografi immortalarono l'assenza della sua biancheria intima

di Ilaria Mauri

Addio alla stilista dalla chioma rossa. Un’icona anarchica di stile. Una delle donne più influenti del mondo della moda, che con i suoi abiti ha combattuto battaglie politiche per i diritti civili. È morta a 81 anni Vivienne Westwood, “l’unica vera punk ancora in vita”. Si è spenta dopo una lunga malattia che ha voluto tenere segreta. La debolezza, d’altra parte, non ha mai fatto parte della sua vita. Ribelle nell’essenza, ha dovuto arrendersi davanti ad una forza più forte di lei. La sua assenza all’ultima sfilata parigina del suo brand, lo scorso ottobre, era un’avvisaglia ma tutti la credevano immortale. E invece la regina dello stile brit se ne è andata il 29 dicembre, in una funesta serata che ha visto morire anche Pelè e il batterista e fondatore degli Stadio, Giovanni Pezzoli. È scomparsa tre mesi e mezzo dopo la “vera” regina d’Inghilterra, Elisabetta II, che con ammirazione le aveva conferito la spilla dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico. Al termine della cerimonia Vivienne si divertì a giocare provocatoriamente con la sua gonna e, complice il vento di Londra, i fotografi immortalarono l’assenza della sua biancheria intima: “Ho sentito dire che la Regina è rimasta divertita dalle foto”, disse all’indomani al Guardian. Due donne apparentemente agli antipodi eppure molto simili, accomunate da una tempra di ferro e da una cieca dedizione per ciò in cui credevano. Ovvero, nel caso di Vivienne Westwood, la libertà, i diritti civili, l’appoggio al mondo LGBTQ+, la lotta al consumismo e la tutela dell’ambiente.

Vivienne Westwood al Fattoquotidiano.it (2012, Milano moda Uomo)

La sua è stata una vita da pioniera. Ambientalista e vegetariana ante litteram, stella della moda inglese quando ancora le stiliste britanniche si contavano sulle dita di una mano. Iconoclasta nell’animo, è diventata – suo malgrado – a sua volta un’icona. Autodidatta e caparbia, nelle etichette proprio non è mai riuscita a stare. Insofferente alle regole, nessuno è mai riuscito ad imbrigliarla: in gabbia ci si è messa da sola solo (sfoggiando un ironico tailleur giallo canarino) per protestare a sostegno di Julian Assange. “L’unico motivo per cui faccio moda è fare pezzi la parola conformismo”, diceva. Ed era vero. Anticonformista lo è stata sempre, pronta a schierarsi con prese di posizione politiche anche nette, a prescindere dalle conseguenze. Ma soprattutto, Vivienne ha saputo mettere insieme moda e musica come nessun altro.

Nata l’8 aprile del 1941 in un villaggio della campagna inglese, è cresciuta in piena Seconda Guerra Mondiale, tra razionamenti, difficoltà e privazioni: la vita è stata la sua grande insegnante, ha forgiato il suo animo allevandola con l’idea che non si spreca nulla, una filosofia che è rimasta il suo credo anche da stilista. Fu il suo professore di storia dell’arte al liceo ad intuire per primo la sua vena creativa, spingendola ad andare ad Oxford. Un’università troppo prestigiosa per le ristrettezze economiche in cui versava la sua famiglia. Così, a 17 anni Vivienne lasciò gli studi e si trasferì a Londra, iniziando a creare gioielli in Portobello Road mentre lavorava come maestra. Fu così che negli ambienti. Si sposò con il suo primo marito (dal quale attinse il cognome Westwood ed ebbe il suo primo figlio) ma solo pochi mesi dopo conobbe Malcom McLaren e fu amore a prima vista. Ma anche l’inizio di un prospero sodalizio artistico. È stato con e grazie a lui, infatti, che nel 1971 è arrivata la svolta: lui divenne il manager dei Sex Pistols e lei aprì il negozio Let it Rock al 430 di Kings Road. Lui creò la musica punk, lei lo stile che rese iconico quel genere nella storia. Spille, pelle, borchie, tartan e t-shirt tagliuzzate dagli slogan irriverenti, come quella con la regina Elisabetta con la bocca cucita. Il suo negozio cambiava nome sistematicamente, ispirandosi alla sua nuova collezione: era l’epicentro di tutte le subculture londinesi, centro gravitazionale della cultura punk di quell’epoca. Iggy Pop, Billy Idol e Alice Cooper erano di casa. E Vivienne cuciva letteralmente addosso a loro la sua moda. Con McLaren viveva in un camper, ebbero un figlio, nato nonostante la nonna di lui le avesse dato i soldi per abortire. Lei invece ci comprò un maglione e qualche metro di tessuto di cachemire.

Poi arrivarono gli anni ’80, l’idillio con Malcom McLaren si ruppe, gli ideali di gioventù svanirono come un sogno all’alba, il punk e i moti di ribellione si scontrarono il rigore della “Lady di Ferro” Margaret Thatcher. Vivienne Westwood avvertì il passo dei tempi e, proprio come fanno i serpenti, cambiò pelle e istituzionalizzò il suo ruolo da stilista. Dopo essersi ritrovata sola e con due figli da crescere, rimise a studiare e ricominciò da zero. Si appassionò all’estetica del Settecento e al mondo dei pirati e fece suoi questi universi, introiettandoli e facendone sintesi sublime nella sua moda. Ecco allora che la musica torna ad avere un ruolo centrale nel suo percorso: dopo aver ideato e definito lo stile del punk, codifica il look new romantic degli Spandau Ballet, portando in passerella corsetti, crinoline, sottogonne, gorgiere, parrucche, velluti e faux cul. Sdoganò la lingerie a vista – unico modo di indossarla per lei accettabile – e condensò le suggestioni della corte di Versailles con il rigore della regina Elisabetta I. La sua moda è intrisa di femminismo ma priva di retorica: è lei stessa ad essere un modello di vita per le donne. La più grande lezione di Vivienne Westwood è forse proprio questa: la libertà di essere pienamente se stessa, di alzare la voce, di ricominciare da capo. Di decidere liberamente della propria vita e del proprio corpo, fregandosene di quel finto perbenismo moralista di cui era (ed è tuttora) intrisa la società borghese.

Nel 1983 riscopre l’amore con uno studente del suo corso di moda all’università di Vienna, Andreas Kronthaler: lei ha 47 anni, lui 22. I due si sposano pochi anni dopo, nell’88, durante una pausa pranzo a Londra. Una differenza d’età notevole, ma che importa: lei è sempre la stessa, la ragazza ribelle dalla chioma rossa e dai pungenti occhi azzurri che dal 1971 ha inventato il punk, fregandosene delle convenzioni e rivoluzionando i criteri di bello e brutto, giusto e sbagliato. E lui, Andreas, nutre attraverso il suo influsso la sua vena creativa affiancandola sempre più alla direzione creativa del suo brand, fino a prenderne le redini. Il loro è un amore maturo, profondo e passionale: “Dio da quanto ci conosciamo! Che meraviglia. Voglio celebrarti come mia collaboratrice, amica e partner, mia insegnante e ovviamente musa – le scrisse lui qualche anno fa in una lettera pubblicata in occasione di una delle sue sfilate -. Ancora oggi credo che tu sia la donna meglio vestita. Ti amerò per sempre“. Ed è stato proprio lui che ieri sera si è trovato a dover annunciare al mondo la perdita di questa piccola grande donna che da figura di rottura è diventata un modello celebrato nei musei. Le top model hanno fatto a gara per sfilare sulle sue passerelle, anche a costo di cadere rovinosamente a terra a causa delle sue creazioni estreme, come successe a Naomi Campbell con un paio di scarpe con 22 centimetri di tacco. Ogni sua collezione spalancava le porte su un mondo magico e onirico, in un surrealismo contemporaneo. Sebbene avesse deciso di lasciare la direzione creativa del suo marchio al marito per dedicarsi appieno alle battaglie politiche in cui ciecamente credeva, si finiva sempre per vederla nel backstage delle sue sfilate con qualche spillo in mano. Diceva di non voler parlare dei vestiti ma poi i suoi occhi azzurri come il mare che incontra il cielo finivano sempre per soffermarsi su un abito. Perché la moda è stata per lei una lingua più potente di ogni ogni parola.

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