Chissà che cosa avranno da guardare tutti quelli che, passando la mattina presto da corso Verona, volgono repentinamente lo sguardo verso il cielo o contemplano le vetrine di un bar che non sembra avere niente di diverso da tutti gli altri? Parliamo del corso Verona di Torino e di fronte al bar di cui sopra c’è un piazzale dove si snoda la coda dell’Ufficio stranieri della Questura di Torino, al civico 4: uomini donne bambini in fila dalle 6 del mattino, ben esposti alle intemperie delle stagioni, alcuni con regolare appuntamento (ma fa lo stesso!) che attendono di essere ammessi alla selezione iniziale (tu entri, tu no) e poi alla coda interna per accedere agli sportelli.
Centinaia e centinaia ogni giorno, alcuni che ritornano più volte perché preoccupati dai ritardi stratosferici nel rilascio del loro permesso di soggiorno, timorosi di aver sbagliato qualcosa perché dopo mesi dalla presentazione sulla app del loro cellulare la pratica risulta rossa, ancora da caricare. La coda è lunga, perpetua e anche un po’ agghiacciante perché richiama altre code assai più drammatiche, ben presenti nella memoria dei più vecchi fra noi; per fortuna i poliziotti che smistano le persone e dirigono il traffico sono gentili e ci provano per davvero a dare una mano all’umanità paziente, variopinta e infreddolita.
Eppure sembra che la coda non la veda nessuno: non il questore, non il prefetto, non il sindaco, gli assessori, nessuna delle tante autorità che si trovasse anche solo per caso a passare da lì. Dopo lo scandalo recente della compravendita dei permessi e gli arresti di poliziotti e mediatori, parlano di un protocollo fra enti che sarebbe in costruzione da mesi per smaltire gli arretrati, ripristinare gli appuntamenti – quelli veri – e ridurre i tempi di attesa. Intanto tutti in coda, invisibili, e non è così solo a Torino.
Costa davvero così tanto avere cura delle persone allestendo servizi che rispettino la dignità e i pochi diritti di cui sono portatrici? Non serve pagare funzionari, dirigenti, strutture se il risultato è la manifesta esasperazione di una condizione di disparità: tu che sei ultimo ricevi il trattamento che ti meriti, così capisci da subito in che Stato vivi. Quelli in coda sono migranti regolari, molti lavorano e hanno preso permesso per stare lì coi famigliari, sperano di passare sennò dovranno perdere un’altra giornata di lavoro. Gli irregolari di lì non ci passano proprio, ma lo Stato i regolari li tratta così. Attendiamo fiduciosi il protocollo.
Protocollo: ormai questa sembra essere diventata la parola magica dietro la quale si trincerano assistenti e assistiti, servitori e serviti. Se c’è un problema si studia un protocollo che definisce procedure per risolverlo tutte le volte che si presenta. Come in campo sanitario il protocollo definisce le procedure terapeutiche per affrontare una patologia, lo stesso nel mondo dei servizi alle persone. Definito lo standard, il protocollo appunto, sono le persone a doversi adeguare, non viceversa. Così l’assistito/beneficiario di un servizio deve conformarsi alle esigenze di chi lo eroga perfino quando sono incomprensibili o peggio arbitrarie. Così l’assistente diventa assistito dato che il protocollo viene incontro alle sue esigenze, l’assistito si conformi.
L’operatore sociale modella sui suoi protocolli la sua azione, incurante a volte della coerenza degli stessi con i ritmi e i bisogni degli interlocutori. Se gli assistiti sono gli ultimi la questione diventa esplosiva: team di operatori sociali che consumano il tempo di lavoro in riunioni fra loro e in interminabili sedute di formazione, mentre i servizi che dovrebbero erogare latitano. In forza dei benedetti protocolli scaricano tutto quello che possono sui pochi che ancora concepiscono la loro attività come costruzione di un progetto di vita con l’assistito, un impegno e una valutazione dei risultati degli sforzi (anche economici sostenuti).
L’impressione è che la macchina dell’assistenza finisca per alimentare quasi solo se stessa, quelli che ci lavorano, con un impatto sulla platea dei destinatari a volte irrilevante, a tratti dannosa, così dannosa da giustificare chi ne propone lo smantellamento.
Così apprendiamo dal governo che intende risolvere in un colpo solo il problema dell’immigrazione, della piccola delinquenza, della sicurezza, della disoccupazione giovanile e del reddito di cittadinanza, eliminando l’idea stessa che lo Stato debba farsi carico dei più deboli, in proprio e con sue strutture, ridistribuendo quota parte della ricchezza e delle opportunità attraverso il sostegno economico, sociale e culturale. Il sostegno e l’assistenza da tempo sono scivolate nella carità, demandate cioè al volontariato sociale e ai suoi mezzi (si chiama privatizzazione dell’assistenza). La carità, vale a dire l’aiuto estemporaneo a chi si trova in grave difficoltà con la speranza che gli serva a risollevarsi, è diventata elemosina, quella che si fa al venditore di rose per toglierselo di torno.
Dove guardano le autorità che non vedono la coda di corso Verona? L’occhio ce l’hanno fisso sulle montagne che si intravedono all’orizzonte, quelle della val di Susa. Lì parrocchie e volontari laici aiutano gli immigrati a passare il confine per raggiungere luoghi dove spesso li attendono parenti e amici. E’ una lotteria, a volte con la propria vita in palio, tanti ce la fanno, tanti tornano indietro respinti dai gendarmi francesi, si rifocillano e ripartono. Le autorità e il mondo dell’informazione non guardano però il frenetico viavai dei disperati, osservano con vigile attenzione tutto il mondo che li aiuta nel viaggio, li rifocilla, raccoglie per loro abbigliamento e attrezzature adatte, un mondo con tanti No Tav a fare la parte più difficile del lavoro, quella che per ipocrisia non si dice.