La vigilia di Natale, mentre già stavo preparando la mia annuale classifica dei migliori e dei peggiori, mi sento con il mio amico Nanni Delbecchi per gli auguri. Riguardo al lavoro mi dice che non mi invidia proprio: che fatica trovare qualcosa di bello nell’annata televisiva. In realtà – gli spiego – è il contrario: difficile è ricordarsi il peggio, in una situazione di degrado e piattezza la difficoltà è trovare qualcosa che spicchi sul resto per bruttezza. Quanto al bello invece è facile ricordare le poche cose che si distinguono dal grigiore generale, anzi ne dovrò lasciar fuori qualcuna.
Cominciamo allora dal peggio che, vista la premessa, questa volta non identifichiamo con un programma ma con un intero genere, l’informazione, quella dei tg, dei talk e degli speciali, tutta e su tutte le reti, da quando anche i telegiornali che un tempo manifestavano segni di originalità e di diversità dei punti di vista, hanno perso un po’ smalto o anche più di un po’ (La7 e SkyTg24, tanto per non fare nomi). Procediamo in ordine non di demerito ma semplicemente cronologico.
1. Che le cose non si mettessero bene si era capito già dall’inizio dell’anno, a gennaio nei giorni dell’elezione del presidente della Repubblica. tg, talk e maratone tutti concentrati sull’evento senza portare a casa nulla. Dirette di sedute prevedibilmente senza esito, senza interesse, senza pathos, mica come ai bei tempi della lotta all’ultima scheda per eleggere Saragat o Leone. Interviste volanti a parlamentari in uscita da Montecitorio che non dicevano nulla o dicevano il contrario di quello che realmente pensavano. Notizie clamorose, date per certe, che si sgonfiavano nel giro di mezz’oretta.
Infine, dibattiti fiume in studio tra editorialisti e direttori della grande stampa (giornaloni non si dice…) impegnati in analisi minuziose, interpretazioni arzigogolate, previsioni che non ci hanno mai azzeccato.
2. Poi è arrivata la guerra che, come è noto, ha tra le sue prime vittime la qualità dell’informazione. Infatti i talk hanno toccato il fondo. Hanno rimesso in circolazione gli esperti di geopolitica e di strategie militari che conoscono cose che in realtà nessuno può conoscere (a proposito, che fine ha fatto il tumore che lasciava a Putin tre mesi di vita quando in primavera a una cerimonia si fece passare una copertina per difendersi dal freddo?). Ovviamente da questa compagnia di presunti esperti è escluso Lucio Caracciolo, ma dopo di lui c’è solo il diluvio di sciocchezze.
La deriva dei talk non si è fermata qui. Fedeli alla loro esigenza di contrapposizione frontale, hanno creato uno scontro tra i virtuosi e spesso retorici sostenitori della causa ucraina da una parte e, dall’altra, dei cattivoni spacciati per filoputiniani, solo perché osavano fare qualche distinzione: difficile trovare qualcosa di più fasullo. Ma dalla deriva non sono esclusi i telegiornali, tanto lodati e celebrati per la loro presenza costante sul campo nelle zone e nei momenti più delicati e pericolosi, ma nei quali, a mio parere, ha prevalso la ricerca dell’effetto, il patetico, l’esibizione un po’ narcisistica della bravura e del coraggio degli inviati.
3. Alla torta già un po’ indigesta mancava qualche ciliegina, e così in finale di stagione qualcuno le ha messe. Prima i giornalisti del Tg1 che si sono ribellati all’intrusione di Fiorello nel loro spazio informativo del primo mattino. Come se fosse essenziale per gli italiani avere di primo mattino le informazioni da parte del Tg1 e ammesso – ma non affatto concesso – che quello che fa Fiorello sia meno significativo, proprio sul piano dell’informazione, di quello che fa il telegiornale.
Infine, proprio in extremis, per non farci mancare nulla come si suol dire, è arrivato lo speciale di Porta a porta con l’intervista alla (al) Presidente del consiglio che in piena bagarre per il voto della finanziaria ci ha parlato del più e del meno.
Ma lasciamo da parte le questioni del valore informativo dell’intervista e chiudiamo con un particolare buffo. L’intervista collocata in access prime time ha fatto un mezzo miracolo, ha consentito a Rai 1 di perdere il confronto in termini di audience con la concorrenza, cosa che in quella fascia accade ormai rarissimamente. Visto che a beneficiarne è stata Striscia la notizia, un bel tapiro lo vogliamo regalare?
E veniamo alla parte più piacevole, alle belle sorprese che non sono poche.
1. La prima menzione va a Maurizio Crozza e al suo programma. Cambiano le maggioranze, i governi, i climi politici, le egemonie culturali, le reti che lo ospitano e ne traggono ampi benefici, ma lui è sempre in forma. Preciso nei riferimenti, puntuale a cogliere l’esprit du temps, fa satira davvero. Prima di tutto perché fa ridere e se non si ride non è satira; poi la sua satira annulla l’inutile problema dello schieramento della satira, della faziosità. I suoi bersagli sono di tutte le parti e se i difetti che mette in risalto nei personaggi che prende di mira sono diversi, alcuni più gravi altri più leggeri, la differenza non dipende da Crozza ma dai difetti. Infine, la sua è satira che non ha bisogno di aggettivi, politica perché tutto, come si diceva un tempo, è politico. Anche il recalcatismo, che da solo vale la collocazione nella categoria dei migliori.
2. La filosofia delle piattaforme televisive nella produzione di fiction si dice si sia convertita al glocal: realizzare prodotti da distribuire in un mercato internazionale partendo da un inserimento in un territorio locale di cui si coinvolgono paesaggi, location, atmosfere culturali, risorse artistiche. I risultati possono essere disastrosi come nel caso di White Lotus con la sua Sicilia così piena di stereotipi da sembrare uscita da uno di quelle commedie erotiche italiane degli anni Settanta. Oppure di assoluto valore come nel caso di Petra. Qui si prendono le vicende poliziesche narrate da una scrittrice spagnola e ambientate a Barcellona e le si trasferiscono a Genova. Il carattere bizzarro, un po’ depresso, anticonformista della protagonista e le sue relazioni sempre complicate e contradditorie con i colleghi, gli amici, qualche possibile amante si armonizzano perfettamente con le atmosfere malinconiche, chiaroscure, misteriose di una paolocontiana Genova per noi. Il fascino della serie, ancor più dai casi delittuosi che Petra risolve, deriva dalle immagini, dal ritmo dolce della narrazione, dalla bravura degli attori, ovviamente Paola Cortellesi ma anche Andrea Pennacchi.
3. Discostandomi dalla linea del giornale che ha scelto di non parlare dei mondiali di calcio, io li premio (a dimostrazione che il Fatto non è una caserma). Non i mondiali in sé, belli anche dal punto di vista agonistico ma macchiati indelebilmente dalla scelta folle del paese organizzatore, ma la gestione che ne ha fatto la Rai: telecronache puntuali, commenti interessanti sia nella versione classica alla Nela o Di Gennaro sia in quella estrosa chiacchieratissima alla Adani, rubriche rapide, sintetiche, attente sia agli aspetti tecnici sia al contesto discutibile in cui si svolgeva il tutto.
Anche la scelta criticata di replicare il Circolo con la stessa squadra delle Olimpiadi ha avuto il merito di invertire l’abitudine terribile in uso da anni di confondere l’internazionalità con il folklore, portando in studio una ballerina di oba oba oba per rappresentare il Brasile e un signore vestito da torero per la Spagna. Le polemiche preventive per il possibile flop di ascolti legato alla mancata qualificazione della nazionale italiana si sono rivelate inconsistenti di fronte ai numeri strepitosi. Anzi, paradossalmente la mancata partecipazione degli azzurri ha consentito di allargare lo sguardo verso altre storie di cui questo mondiale è stato ricco: non solo la seguitissima favola del Marocco ma anche, per esempio, il comportamento del Giappone nei suoi significati culturali.
Ps. tra le eccellenze dell’anno televisivo non si certo possono dimenticare Sei pezzi facili e Esterno notte, ma portando la firma di Mattia Torre e Paolo Sorrentino il primo, di Marco Bellocchio l’altro, li considero fuori concorso.