Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)
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“Il Presidente Federale Flavio D’Ambrosi ha voluto fortemente darmi questo ruolo in modo che i ragazzini di 13-14 anni possano crescere con la mia tecnica. È questa l’età in cui si acquisiscono qualità e velocità. Più tardi certe cose non le alleni più”. Patrizio Oliva – da pugile è stato campione olimpico a Mosca 1980, diventato professionista ha vinto sia l’europeo che il mondiale Wba, in assoluto uno dei più forti nella storia della boxe italiana – oggi, oltre a gestire una sua palestra a Soccavo frequentata da amatori e agonisti e aperta a varie discipline, è responsabile della Nazionale azzurra Schoolboys. “Gli automatismi di un giovane pugile devono essere corretti, perché sei hai le basi il colpo verrà buono sia oggi che domani. Io in questo sono un allenatore maniacale perché i dettagli fanno la differenza nel bene e nel male e questo si vedrà appunto anche in futuro. Ecco, non voglio che i giovani pugili crescano con difetti tecnici”.
Cos’altro non può andare trascurato?
“Il senso percettivo, per il quale ad ogni movimento dell’avversario tu vai in allarme ed eviti di prendere il colpo che sta per arrivare. Quando il colpo ti arriva telefonato, lo prendi meglio, ti fa meno male insomma. Quando combattevo io, i miei pugni erano invisibili, l’avversario non si accorgeva nemmeno di quello che stavo facendo”.
Qualche dritta ai maestri meno esperti?
“Per insegnare ci vuole occhio, oggi di maestri che conoscono la tecnica ce ne sono pochi. Un maestro deve applicarsi nella teoria e poi trasformarla in pratica. Bisognerebbe formare una classe di allenatori che sappiano curare i dettagli. Se vuoi un buon pugile, serve che ci sia un maestro buono. In Italia oggi non stiamo lavorando male, anche se bisogna fare ancora molta strada”.
Come mai è così focalizzato su questo tema?
“Direi che sono molto severo su queste cose perché l’integrità fisica di un pugile così come la sua stessa vita è nelle mani di un allenatore, normale che questi debba essere scrupoloso e attento”.
Ma questi dettagli si vedono anche negli incontri tra Schoolboys?
“In un match tra ragazzini dello stesso livello non si vedono i difetti. Poi se incontri uno più forte, allora iniziano a emergere i problemi”.
Lei ha avuto buoni maestri?
“Io ho avuto la fortuna di aver avuto grandi maestri. Geppino Silvestri era allenatore di mio fratello Mario, a 8 anni anch’io ero già in palestra. Tecnicamente Silvestri era bravo”.
Il più bravo di tutti chi è stato?
“Steve Klaus. Con lui ho fatto tutti i corsi di addestramento. Veniva spesso in palestra da me perché scriveva libri sulla boxe che erano illustrati da un altro mio maestro, Antonio D’Alessandro. Klaus ha insegnato anche a campioni come Duilio Loi e Sandro Lopopolo. È stato il miglior allenatore in assoluto e io sono stato il suo ultimo allievo. Porto ancora con me le sue lezioni. Poi io ho fatto studi per conto mio, sono anche laureato in Scienze motorie”.
Anche la carriera di pugile ad altissimi livelli può servire?
“Beh, qualche incontro l’ho fatto sì… Il vissuto è importante perché ti fa diventare più empatico con il tuo pugile. Per stimolarlo devi leggere le sue emozioni”.
Cosa le ha dato la boxe e oggi cosa si aspetta ancora da questo sport?
“Io dalla boxe ho avuto tutto, però è ancora una bella soddisfazione vedere i piccoli salire sul ring”.
Allievi tra i maestri di oggi sente di averne?
“Ho conosciuto Giacobbe Fragomeni che era appena finito terzo ai campionati italiani. ‘Dimenticati come hai combattuto fino ad ora’, gli ho detto. Io amo molto le sfide. E da professionista è diventato campione del mondo. Oggi Giacobbe è un bravo allenatore come lo è Bundu. Sono riflessivi, grintosi, conoscono la tattica e la tecnica che ho trasmesso. Sono orgoglioso. Sono figli miei”.
Le prossime sfide?
“A Jessica Galizia è tornata, dopo un periodo di inattività, la voglia di combattere e vuole affidarsi a me. Puntiamo alle olimpiadi di Parigi. Mi piacciono i giovani motivati che accettano le sfide della vita e dello sport. Verrà ad allenarsi a Napoli da me. La conoscevo come pugile della Nazionale. È un bel pugile che deve migliorare su alcune cose. Manca un anno e mezzo all’appuntamento più importante per un pugile dilettante”.