Al corpo di Ratzinger, che è stato trattato per l’esposizione in San Pietro, è stata messa innanzitutto la talare bianca che ha portato dall’elezione nella Cappella Sistina, il 19 aprile 2005, fino alla morte, avvenuta il 31 dicembre 2022. Sopra la talare bianca, alle spoglie del Papa emerito sono state messe le vesti liturgiche
La Chiesa cattolica ha sempre parlato attraverso i segni sacri. I paramenti che rivestono la salma del Papa emerito Benedetto XVI, esposta dal 2 al 4 gennaio 2023 nella Basilica Vaticana per la venerazione pubblica dei fedeli, spiegano chiaramente che non è morto il Pontefice regnante. Al corpo di Ratzinger, che è stato trattato per l’esposizione in San Pietro, è stata messa innanzitutto la talare bianca che ha portato dall’elezione nella Cappella Sistina, il 19 aprile 2005, fino alla morte, avvenuta il 31 dicembre 2022. Sopra la talare bianca, alle spoglie del Papa emerito sono state messe le vesti liturgiche: l’amitto che gli copre il collo e il camice bianchi; la stola presbiterale, la tunicella e la casula rosse. Ciò perché il rosso è il colore del lutto papale. Soltanto i vescovi possono indossare sia la tunicella che la casula, indicando così la pienezza dell’ordine sacro, distinto nei tre gradi del diaconato, presbiterato ed episcopato, che hanno ricevuto con le rispettive tre ordinazioni.
Sul capo di Benedetto XVI è stata posta la mitra bianca aurifregiata, anch’essa propria del lutto papale. Ai piedi della salma è stato messo un paio di scarpe nere. Nelle mani ha un rosario che reca il suo stemma pontificio e una croce che ricorda quella pastorale utilizzata da san Paolo VI e san Giovanni Paolo II, ma anche dallo stesso Benedetto XVI e oggi da Francesco. Croce pastorale che non è stata messa accanto alla salma di Ratzinger proprio perché non era più Papa al momento della morte. Benedetto XVI non indossa nemmeno il pallio, che indica la giurisdizione degli arcivescovi metropoliti, che in vita gli era stato concesso tre volte: nel 1977 con la nomina di arcivescovo di Monaco e Frisinga, nel 2002 quando divenne decano del Collegio cardinalizio e nel 2005 con l’elezione al papato. Infine, a Ratzinger è stato messo l’anello episcopale che ha portato sempre durante il periodo dell’emeritato, dopo aver ovviamente fatto distruggere, con le dimissioni, quello del pescatore che ha indossato dalla messa di inizio pontificato, il 24 aprile 2005, fino all’ultimo giorno di regno, il 28 febbraio 2013.
Proprio nel suo ultimo giorno di governo, ricevendo in udienza tutti i porporati presenti a Roma, Benedetto XVI disse: “E tra voi, tra il Collegio cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza”. Un impegno che Ratzinger ha mantenuto nei quasi dieci anni di convivenza con il suo successore. Un tempo più lungo di quello del pontificato durato otto anni. All’epoca delle dimissioni, Benedetto XVI decise di continuarsi a chiamare con il nome assunto con l’elezione nella Cappella Sistina, definendosi Papa emerito. Una scelta assolutamente inedita perché, se altri papi avevano rinunciato nel corso dei secoli, nessuno mai si era definito Papa emerito, continuando a indossare la talare bianca.
Una decisione, quella presa da Ratzinger, criticata pubblicamente anche da alcuni suoi stretti collaboratori, come il vescovo Giuseppe Sciacca, canonista di fama internazionale e attualmente presidente dell’Ufficio del lavoro della Sede Apostolica. Il presule ha sottolineato che “l’espressione di ‘Papa emerito’ o ‘Pontefice emerito’ sembrerebbe configurare una sorta di potestà pontificia distinta da un suo ulteriore tipo di esercizio. Un esercizio non individuato, mai definito in alcun documento dottrinale, e di impossibile comprensione, che sarebbe stato oggetto di rinuncia. Argomentando in questo modo, parte della potestà pontificia rimarrebbe all’emerito, anche se, si dice, interdetta nell’esercizio. Ma l’interdizione dall’esercizio di ciò che per sua natura è essenzialmente libero nell’esercizio (potestas) è un nonsenso. Appare perciò evidente l’irrazionalità di questa tesi e i possibili errori interpretativi che ne derivano”.
Sciacca non è d’accordo nemmeno con il titolo di vescovo emerito di Roma: “Ritengo che questa soluzione sarebbe altrettanto problematica, seppure qualche autorevole canonista l’abbia sostenuta: Papa, Pontefice o vescovo di Roma sono infatti sostanzialmente sinonimi. Il problema non è il sostantivo, Papa o vescovo di Roma, ma l’aggettivo emerito, che porta a una sorta di duplicazione dell’immagine papale”. E aggiunge: “Non sono tra quelli che si augurano che la rinuncia al papato diventi una consuetudine. Anzi! Come pura ipotesi di lavoro, se volessimo prefigurare per il Pontefice rinunciante una possibile previsione legislativa per il futuro, la soluzione più congrua mi sembrerebbe quella del conferimento del titolo di ‘Già Sommo Pontefice’. Oppure quella di prevedere il reinserimento del rinunciante nel Collegio cardinalizio, nell’ordine dei vescovi, da parte del nuovo Papa. E per sottolineare la singolarità del nuovo titolare, nell’ipotesi in cui tutte le sedi suburbicarie fossero occupate, inserirlo, ad personam, tra i patriarchi orientali che sono membri del Collegio cardinalizio”.
Tesi che ora, dopo la morte di Benedetto XVI, potrà essere presa in seria considerazione in vista dell’introduzione di una legislazione sul Papa emerito. Anche se, proprio recentemente, Francesco ha smentito di voler definire lo status giuridico del Pontefice che si dimette: “No. Non l’ho toccato affatto, né mi è venuta l’idea di farlo. Ho la sensazione che lo Spirito Santo non ha interesse a che mi occupi di queste cose”. Parole pronunciate, però, prima delle morte di Ratzinger. Ora lo scenario è completamente cambiato.
Twitter: @FrancescoGrana