L'ANALISI - I dati in arrivo da Francia, Germania, Portogallo e Spagna mostrano che i prezzi aumentano ancora, ma il ritmo di crescita sta rallentando. I mercati sembrano sperare che questo si traduca in un allentamento delle politiche restrittive della Bce: i differenziali di rendimento tra Bund e titoli dei Paesi "deboli" è molto calato. Gli economisti, però, continuano ad aspettarsi altri rialzi dei tassi, perché mentre la Bce stava a guardare i rincari energetici hanno contagiato il resto dell'economia. E questo dà argomenti ai "falchi" che siedono nel consiglio direttivo dell'Eurotower
L’Europa, stando ai dati in arrivo da Francia, Germania, Portogallo e Spagna, potrebbe aver superato il picco dell’inflazione. E i mercati sembrano sperare che questo si traduca in un allentamento della politica restrittiva della Bce, come dimostra la discesa del differenziale di rendimento tra il Bund tedesco e i titoli di Italia e Spagna. Ma convincersi che le “colombe” in seno al consiglio direttivo dell’Eurotower abbiano ora a disposizione argomenti convincenti per contrastare i “falchi” rischia di essere un azzardo. Gli analisti, infatti, sottolineano che la riduzione delle quotazioni energetiche, che sta favorendo il calo degli indici complessivi dei prezzi, non basta per dichiarare lo scampato pericolo: nel frattempo, complice il ritardo con cui la stessa Bce si è mossa, i rincari hanno “contagiato” il resto dell’economia e la cosiddetta inflazione core – quella al netto di energia e alimentari – resta troppo alta. Gli economisti continuano dunque a scommettere su altri due aumenti dei tassi a febbraio e marzo.
Buoni dati sui prezzi in Spagna, Germania, Portogallo e Francia… – Le speranze in un ripensamento sono state alimentate, negli ultimi giorni, dal rallentamento della crescita dei prezzi registrato in Spagna e Germania, dove a dicembre il tasso di inflazione si è assestato rispettivamente al 5,8 e all’8,6% a fronte dei +6,7% e +10,3% di novembre. Un lieve calo si è visto anche in Portogallo (+9,6% dal +9,9 di novembre). Mercoledì è stato diffuso il dato relativo alla Francia: secondo l’istituto nazionale di statistica, il mese scorso l’indice dei prezzi al consumo è salito anno su anno del 5,9% contro il +6,2% di novembre, grazie al calo dei prezzi dell‘energia e in misura minore dei servizi, contro il +6,4% previsto. Giovedì l’Istat diffonderà il dato per l’Italia e la riduzione delle quotazioni del gas sotto i 90 euro nella seconda parte del mese fa pensare che non sarà più a doppia cifra, dopo il +11,8% di ottobre e novembre.
…ma l’inflazione core resta alta – Segnali positivi che, spera qualcuno, non potranno non influenzare le prossime decisioni della Bce che a partire da luglio ha avviato una pesante stretta mirata a frenare la domanda proprio per contenere il rialzo dei prezzi. Di qui il forte calo dello spread Btp-Bund, sceso a 199 punti base (-10 rispetto alla chiusura di martedì) dopo le fiammate delle ultime settimane, e di quello tra Bund e Bonos spagnoli. Sull’evoluzione della politica monetaria in effetti sempre più analisti esprimono dubbi, considerato che ormai metà dell’Unione europea è data per destinata alla recessione nel corso dell’anno: se l’obiettivo era “distruggere domanda“, insomma, si può dire raggiunto. Ma davvero il raffreddamento (relativo) dell’inflazione rafforza la posizione delle “colombe” nel board? E potrebbe indurre l’Eurotower a rivedere la decisione di alzare ancora i tassi come la presidente Christine Lagarde aveva anticipato a metà dicembre? Occorre guardare più a fondo, come avverte il Financial Times: i dati dicono anche che “se i prezzi dell’energia hanno ridotto l’inflazione generale, le pressioni sui prezzi di altri beni e servizi sono rimaste invariate o hanno continuato a crescere. L’inflazione core è salita in Spagna e la Germania ha riportato un’inflazione sui servizi più elevata”.
I ritardi della Bce e la posizione dei “falchi” – Per questo gli economisti continuano ad attendersi nei prossimi mesi altri due aumenti dei tassi di 50 punti base, fino al 3%. Sul modello di quanto sta facendo la Fed statunitense, che resta estremamente aggressiva nonostante cinque mesi consecutivi di caso dell’inflazione. “La decisione di febbraio è scritta nella pietra”, dice per esempio a Bloomberg Piet Christiansen, chief strategist di Danske Bank. Un esito determinato anche, senza dubbio, dai lunghi mesi in cui la Bce – come ha ammesso la stessa Lagarde – ha sbagliato le previsioni insistendo sul fatto che l’inflazione era temporanea, salvo scontrarsi con la realtà (peggiorata dall’invasione russa dell’Ucraina): prezzi al consumo che nell’Eurozona sono progressivamente saliti per tutto il 2022, con un picco del +10,6% in ottobre, complice la trasmissione dei rincari energetici alle commodity e agli alimentari. Errori che ora rafforzano le convinzioni dei falchi come Klaas Knot, presidente della Banca centrale olandese, che una settimana fa ha avvertito: “Il rischio che facciamo troppo poco è ancora il rischio maggiore. Siamo solo all’inizio del secondo tempo“.
I rischi per l’Italia e i dubbi sullo scudo – Dalla parte delle colombe ci sono, in compenso, i timori per l’impatto che una stretta troppo dura potrebbe avere sull'”anello debole” dell’area euro: l’Italia. Martedì ha fatto rumore il sondaggio del Financial times stando al quale 9 economisti su 10 ritengono che sia il Paese dell’area euro più a rischio di una crisi del debito come quella del 2011 a fronte dei rialzi dei tassi e del calo degli acquisti di bond da parte della Bce. Certo non una sorpresa: il debito/pil della Penisola è il più alto dell’area con l’eccezione della Grecia e quest’anno Roma dovrà piazzare sul mercato titoli a medio e lungo termine per una cifra compresa tra 310 e 340 miliardi di euro lordi (contro i meno di 280 del 2022) facendo i conti con un forte aumento dei rendimenti chiesti dagli investitori. Il costo medio all’emissione, stando alle Linee guida della gestione del debito pubblico pubblicate dal Tesoro dieci giorni fa, nel 2022 è stato pari a 1,71% contro lo 0,1% del 2021, e il costo medio del debito è salito a un livello “nell’intorno del 2,9%”.
Ma il risultato della survey è un chiaro segnale del fatto che è considerata del tutto improbabile l’attivazione dello “scudo anti spread” presentato lo scorso luglio dall’istituzione di Francoforte, un programma di acquisti illimitati di titoli di Stato per riportare sotto controllo il differenziale di rendimento. In teoria scatterà in automatico, ma è condizionato all’adozione di “sane e sostenibili politiche fiscali e macroeconomiche” e alla sostenibilità del debito valutata da Commissione, Fmi, Bce e Mes. Più di due terzi degli economisti sondati dal Ft hanno detto di aspettarsi che non sia mai utilizzato.