Calcio

Gianluca Vialli morto – La storia a Genova, lo stile a Londra, il cuore con l’Italia del ‘gemello’ Mancini: addio al campione che ha sconfitto la banalità

Un campione. Di coraggio e di intelligenza. Ex centravanti capace di vincere e fare gol ovunque, ex allenatore-giocatore di successo, apprezzato opinionista televisivo, anima non ingombrante della nazionale campione d'Europa: con lui scompare il simbolo di un'Italia calcistica bella, vincente e da esportazione. Il ritratto di un fuoriclasse nato borghese e mai diventato snob

I gol più importanti non assegnano trofei, ma mettono in moto rivoluzioni. È stato così per Gianluca Vialli, l’uomo che grazie alle sue corse e alle sue reti si è tolto lo sfizio di mandare a gambe all’aria l’intera narrazione sportiva tricolore. In un Paese perennemente eccitato dal luogo comune dell’uomo venuto dal nulla, dalla palla fatta di stracci, dal calcio come anestetico contro la povertà, il ragazzo di Cremona ha scardinato schemi e sovrascritto stereotipi, dimostrando che un eroe borghese può essere interessante tanto quanto un eroe popolare. Un “sacrilegio” che Vialli ha espiato con una vita densa, in cui è riuscito a essere tutto e il suo contrario insieme, ma sempre restando persona senza mai diventare personaggio. L’incipit della sua storia viene scritto il 9 luglio del 1964 a Grumello Cremonese. È lì che suo padre, anni prima, era stato folgorato da un’intuizione: tirare su un’azienda per produrre prefabbricati. L’idea funziona. E anche parecchio. L’uomo diventa imprenditore, costruisce un futuro borghese e opulento. Gianluca nasce in un castello del XV secolo. Ha sessanta stanze e un cortile con un fascino impossibile da dribblare. Il rito di iniziazione arriva presto. In quel giardino il più piccolo dei Vialli inizia a tirare calci al pallone, a modellare l’estetica dei suoi sogni. Prima gioca con i suoi fratelli. Poi invita i suoi compagni. Sono partitelle estenuanti, con le porte improvvisate e con un regolamento molto diluito, ma illustrano al ragazzo le gioie del collettivo. La formazione arriva poco dopo, all’oratorio Cristo Re. Gianluca prega, gioca, segna. Non necessariamente in quest’ordine. Col tempo diventa credente, impara a usare i congiuntivi. E in molti non smetteranno mai di farglielo notare.

Il suo talento però è fuori scala rispetto a quello degli altri ragazzi del catechismo. Così quando compie dodici anni riceve la prima proposta concreta da Franco Cristiani, un professore di italiano con una fissazione per il calcio. È diventato l’allenatore dei giovanissimi del Pizzighettone e vuole far entrare Gianluca nel club. Non sarà l’offerta della vita ma è comunque abbastanza per stravolgere la vita di un ragazzo di provincia. L’intoppo arriva quasi subito. Si scopre che per una questione di giorni Vialli è fuoriquota. Quel cartellino deve essere stracciato, il suo futuro scritto altrove. Sembra la fine, ma è solo l’inizio della sua scalata. La Cremonese si fa finalmente sotto e gli fa firmare un contratto. A sedici anni Gianluca esordisce in Serie C1, poi gioca tre stagioni in B. Il primo a puntare forte su di lui è Emiliano Mondonico, che lo schiera tornante. La sua fiducia viene ricompensata con una decina di gol. E con lo status di gioiello più splendente della cadetteria. Il presidente Luzzara alza il telefono e chiama Boniperti. Gli spiega che quel ragazzino ha un talento sconfinato, che quattro miliardi di lire non sono poi granché per uno destinato a diventare l’attaccante della Nazionale. Boniperti annuisce, fa due conti, rifiuta. Così Vialli finisce alla Sampdoria di Mantovani. Ed è la cosa migliore che possa accadere. Per il calciatore, per il club, per la città. Tutto cambia così in fretta da sembrare quasi automatico, frutto del destino. Gianluca diventa il protagonista di una frase di Ennio Flaiano che dice: “Un giovane va intorno alla vita: cioè è la vita che da dietro lo spinge”. Sotto quel groviglio di capelli mossi tendenti al riccio si nasconde un ragazzo dalla mente affilata. Tanto che dopo le prime interviste i giornalisti lo descrivono come un ragazzo saggio, uno che va oltre l’età anagrafica. Nelle prime due stagioni in blucerchiato gira a vuoto, un po’ esterno, un po’ punta centrale, decisamente poco bomber.

Poi però ecco che a Genova arriva anche Vujadin Boskov. La squadra diventa improvvisamente una famiglia. Roberto Mancini un fratello, l’allenatore jugoslavo un padre, Mantovani un mentore. È un esercizio di affetto che fa venire in mente un verso di Cesare Pavese: “Ho trovato compagni trovando me stesso”. Se non fosse che Vialli in verità non si è mai smarrito. A 22 anni è già uno che sfugge a qualsiasi etichetta, che rompe ogni steccato. “A me piace vestire come i paninari – dice prima di partite con la Nazionale per Messico 1986 – talvolta mi definiscono uno di loro, ma non è vero che sono vuoti. Conta quello che si ha dentro, non l’esteriorità di una moda”. I suoi sogni sono semplici, quasi antitetici rispetto a quelli dei suoi colleghi. In un mondo dove ci si sposa presto lui è un irriducibile scapolo. In un mondo dove ormai si può comprare (quasi) tutto lui dice di no a Berlusconi e ai sui miliardi. Ma Vialli è soprattutto l’uomo che lascia aperti cerchi per poi chiuderli anni più tardi. “Voglio maturare – dice nella stessa intervista – Mi piacerebbe anche diplomarmi geometra. Purtroppo sono fermo alla quarta: ho provato a frequentare un corso serale ma senza buoni risultati. Il calcio non sempre si concilia negli studi”. Sembra un sogno flebile, invece è un manifesto programmatico. Nel 1993, finito il campionato, compra i libri e rinuncia alle vacanze per studiare. Prima italiano. Poi topografia. Il 9 luglio del 1993, nel giorno del suo ventinovesimo compleanno, sostiene l’esame. Nell’attesa di essere chiamato si dice tranquillo. Ma in verità va tre volte al bagno. Quando lo chiamano al banco parla per un quarto d’ora di Romanticismo, di Leopardi e di Manzoni. L’altra materia è più complicata. Il professor Macchioni cerca di prenderlo in contropiede, Vialli si salva sulla linea. Alla fine viene promosso.

“Se ci fidiamo di fargli costruire una casa? Per ora che tiri le palle in linea retta. Per le case c’è tempo”, dice il presidente della commissione. “Dedichi il primo gol al suo diploma”, aggiunge Macchioni. Alla Sampdoria riesce a trasformare una favola in realtà. Anche senza bisogno del vissero tutti felici e contenti. Vialli e Mancini scrivono letteratura con le loro giocate. Bosco trasforma ogni frase in letteratura. “Una volta avevo problemi con la mia fidanzata di allora – rigoderà Gianluca – un giorno il mister mi invitò a casa sua e mi disse: ‘Quando esci dallo spogliatoio, sembri cervo che esce di foresta’”. In blucerchiato vince tutto: tre coppe Italia, una Supercoppa, una Coppa delle Coppe. Oltre a un clamoroso scudetto. Un sogno che sconfina nell’incubo nella notte del 20 maggio del 1992. La Samp arriva in finale di Coppa dei Campioni. Si gioca contro il Barcellona, a Wembley. Vialli sbaglia due occasioni. Koeman trasforma una punizione nel gol che rompe l’equilibrio dei supplementari e regala la coppa ai catalani. Gianluca rivive quella partita tutte le notti. Per quattro anni. Un fantasma del Natale passato che ritorna a fargli notare ciò che poteva essere e non è stato.

Subito dopo passa alla Juventus, diventando il giocatore più pagato della storia del calcio. Eppure Vialli non ha troppa voglia di festeggiare. Perché quelli in blucerchiato sono stati gli anni più belli della sua vita. Appena arriva in bianconero dice: “Un giorno vorrei tornare alla Sampdoria. Quando sarò vecchiotto, quando avrò un po’ di pancia e nessuno mi cercherà più. Starò in panchina e la gente mi chiamerà per nome”. È un concetto che tornerà spesso. Soprattutto durante il primo biennio, quello con il Trap in panchina. Dopo 12 mesi vince la Coppa Uefa ma vuole già andare via: “La Sampdoria ha schemi più adatti alla mie caratteristiche – dice in diretta tv – La mia prima stagione bianconera non mi soddisfa, però sono le due società a doversi accordare”. È un caso che Trapattoni chiude pubblicamente: “Non lo venderemo mai, se lo levi dalla testa, l’ho rincorso per troppo tempo”. La vera svolta arriva con Lippi. “È stato il mio messia – ha detto al Corriere – Al primo colloquio gli dissi che volevo lasciare la Juve. Mi rispose: ‘Proprio ora che arrivo io e ho bisogno di te?'”. Con il viareggino in panchina Vialli riesce a chiudere anche il suo secondo cerchio. Il 22 maggio 1996, a Roma, la Juventus sfida l’Ajax di Louis van Gaal nella finale di Coppa Campioni. Per Vialli è l’ultima occasione della vita. E i fantasmi iniziano a ballare sull’erba verde dell’Olimpico. I tempi regolamentari finiscono 1-1. Solo che stavolta ai supplementari non segna nessuno. Si va ai rigori. Sbagliano Davids e Silooy, la Juve segna sempre. Gianluca Vialli non deve neanche calciatore il suo penalty. Poco dopo afferra la Coppa per le orecchie e la alza al cielo. La sua testa è rasata, la sua faccia stirata in un’espressione di felicità. È un’immagine che diventerà prima copertina, poi poster da appiccicare in camera, infine icona di una generazione.

Subito dopo Gianluca prepara la valigia. Ha 32 anni e la Juventus gli ha offerto il rinnovo per un solo anno. Meglio cambiare aria, meglio cercare gloria altrove. Vialli prende un aereo e atterra a Londra. Lo aspetta il Chelsea, una squadra ambiziosa che vuole provare a vincere una Premier League che è ancora anni indietro rispetto al calcio italiano. Gianluca va e ribalta l’Inghilterra. Introduce nuovi metodi di allenamento, cambia la mentalità di un movimento intero. Prima da giocatore, poi da allenatore. In tre anni vince cinque titoli. Fra cui una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa. Lo stile British gli calza a pennello. Aristocratico senza mai essere elitario, elegante senza mai sfociare nello snobismo. La svolta imprevista arriva nel 2017. A Gianluca viene diagnosticato un tumore al pancreas. Vuol dire un intervento, otto mesi di chemioterapia, sei settimane di radioterapia. Il ragazzo di Cremona scopre di avere paura, tanta. Ma decide di parlare apertamente di quello che gli sta succedendo. E lo fa in maniera particolare: evitando la solita retorica della battaglia. Perché in fin dei conti nessuno può essere considerato un vinto davanti alla sofferenza. Per lui la malattia è un qualcosa che lo obbliga a fare i conti con se stesso, con il significato di esistenza.

“L’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio e dalla quale imparare qualcosa – ha raccontato ad Aldo Cazzullo – Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia. Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano. Poi ho deciso di raccontare la mia storia e metterla nel libro”. Un volume che si intitola Goals. Che richiama l’idea di segnare un gol. Ma soprattutto quella di raggiungere il proprio traguardo. Dentro ci sono storie e citazioni che possono ispirare chi lo legge. E solo alla fine c’è la vicenda di Gianluca. “L’importante non è vincere; è pensare in modo vincente. La vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede, e per il 90 per cento di come lo affrontiamo. Spero che la mia storia possa aiutare altri ad affrontare nel modo giusto quel che accade”. Il problema è che non tutti gli avversari sono alla nostra portata. Vialli però impara a convivere con la paura, capisce che il suo dolore può trasformarsi in energia per chi lo guarda. “Fisicamente sto bene, ma sono ancora molto preoccupato e spaventato – racconta al Times – Ci vorrà del tempo prima di riuscire a liberarsi di questa sensazione che ti fa dire ‘Oh mio Dio, è tornato’ ogni volta che ti svegli, o vai a dormire, con un po’ di mal di pancia o mal di testa“.

Ma c’è ancora un cerchio che Vialli deve chiudere. E lo porta dritto a Wembley. Nel 2019 Roberto Mancini lo chiama e gli offre un posto come capo delegazione dell’Italia. È un nome che non specifica il vero ruolo che dovrà ricoprire: quello di colonna, di sostegno continuo a quel fratello che è diventato cittì della Nazionale. Gianluca accetta senza esitazioni. È solo più magro e scavato, ma la generosità è rimasta la stessa. L’avventura a Euro 2020, che nel frattempo si è giocato nel 2021, è qualcosa di miracoloso. L’Italia supera un avversario dopo l’altro. Fino alla finale. Fino a Wembley. Roberto e Gianluca sono di nuovo insieme, ma stavolta il finale non può essere lo stesso. La partita contro l’Inghilterra è soprattutto una gara contro i fantasmi del passato. Segna Shaw, pareggia Bonucci. Chiellini ferma Bukayo Saka con un intervento che diventa meme. Sembra la volta buona. Ai rigori sbagliano Belotti e Jorginho. Ma soprattutto Rashford, Sancho e Saka. Mentre un Paese balla per un successo inatteso, le telecamere si concentrano su un abbraccio. Mancini e Vialli sono stretti insieme. Stravolti e felici, sorridenti e bagnati dalle lacrime allo stesso tempo. È un’immagine altamente simbolica, che condensa due intere esistenze in uno scatto. Il miracolo però non si ripete. L’Italia non si qualifica per il Qatar. Poi, durante il Mondiale, Vialli torna a scrivere: “Al termine di una lunga e difficoltosa trattativa con il mio meraviglioso team di oncologi ho deciso di sospendere, spero in modo temporaneo, i miei impegni professionali presenti e futuri”. Poche righe che fanno intendere che la situazione è compromessa. È un pugno in pieno volto per migliaia di persone che gli sono state vicino. Fino ad oggi, quando si è spento un uomo che ha rivoluzionato il modo di raccontare non solo il calcio, ma anche la malattia.