Stesso stadio, 29 anni dopo: con la Samp la delusione per la finale di Champions persa, con gli azzurri la felicità per un trionfo difficile da pronosticare e per questo ancora più dolce e in cui Vialli ha rivestito un ruolo molto più importante di quello che si può immaginare
Wembley è lo sfondo. Il vecchio Wembley e il nuovo Wembley, con ventinove anni in mezzo, le lacrime e un abbraccio. Le lacrime sono quelle della finale del 1992 persa col Barcellona per una mazzata incredibile di Koeman al 112esimo. L’abbraccio è quello del 28 giugno del 2021, quando l’Italia vince gli Europei. Due ragazzi nel 1992: ci sono addirittura ancora i riccioloni neri. Due uomini nel 2021. Due fratelli sempre. Già, perché quell’abbraccio tra Vialli e Mancini dopo la finale con l’Inghilterra è e resterà uno dei più belli della storia del calcio. Due che da ragazzi avevano creato un’intesa divenuta esempio di perfezione: se si pensa a una coppia gol in Italia si pensa a loro o a Pulici e Graziani, diventati amici e fratelli tra un gol e l’altro. Non ci aveva pensato due volte Mancini a chiamare Gianluca accanto a sé in nazionale e come capo delegazione per gli Europei: non per l’amicizia, non per il senso fraterno che porta a tendere una mano all’amico in un momento di difficoltà, ma solo ed esclusivamente perché Gianluca Vialli era perfetto per quel ruolo. Riconosciuto dal gruppo come elemento naturale, capace con la grinta e con una capacità oratoria innata volta a dare emozioni, a caricare, a far sentire ogni elemento parte del tutto, Vialli è diventato un elemento fondamentale di quella nazionale.
L’avrebbe voluto con sé anche ai mondiali, Mancini, e infatti dopo la delusione e le lacrime della sconfitta contro la Macedonia l’ha detto: “Ho pianto anche per Vialli”. Che invece dopo l’eliminazione gli ha detto: “Ti voglio più bene ora che a luglio”. Luglio, con quella vittoria straordinaria e Vialli elemento che diventa fondamentale. Tant’è che pur non essendo eccezionale negli elementi, o almeno inferiore a squadre come la Francia, il Belgio, la Spagna, l’Inghilterra, la nazionale è andata avanti lanciando il cuore oltre l’ostacolo, declinando al massimo il concetto di gruppo. C’era Vialli a correre verso il campo dopo il gol di Chiesa all’Austria, ad esempio; c’era Vialli accanto a Donnarumma, per aiutare un ragazzo a gestire un periodo difficile che rischiava di distrarlo per via del mercato. C’era Vialli prima della finale a parlare a quei ragazzi che si stavano conquistando un sogno: sua la scelta di ricorrere alle parole di Roosvelt sull’uomo nell’arena che lotta per l’impresa, a prescindere da errori o mancanze che non appartengono a chi non lotta ma giudica e indica.
Ha saputo toccare le corde giuste evidentemente, d’altronde lo aveva fatto da calciatore e anche nella sua breve esperienza da allenatore che in ogni caso è valsa cinque trofei in quattro stagioni. C’era Mancini ad aprire i viaggi in pullman della squadra verso gli stadi in cui avrebbe dovuto giocare, salendo per primo con Vialli a chiudere per ultimo: un rito scaramantico di chi sa come funzionano i gruppi, ma anche un cerchio che si chiude. E c’era Vialli accanto a Mancini quando la lotta si era conclusa con la vittoria finale. Prima non aveva voluto guardare la sequenza dei rigori Gianluca, poi l’abbraccio più bello laddove c’era stata la delusione più grande. Ancora una volta un cerchio che si apre e che si chiude con due amici, due in grado di cercarsi e di trovarsi anche ad occhi chiusi. Già, anche ad occhi chiusi.