Trecentodiciotto giorni di guerra, di carneficine, di distruzioni, devastazioni, stupri, di bombardamenti indiscriminati sulle infrastrutture civili: la guerra imposta dal Cremlino ha sconvolto l’Europa e il mondo, ma ha anche rivelato al mondo le debolezze del regime putiniano, gli orrori e gli errori: quello, per esempio, di aver puntato sulle divisioni degli occidentali, mentre il conflitto scatenato il 24 febbraio dello scorso anno ha avuto invece l’effetto opposto.

Per non parlare, in queste ultime tragiche settimane, dell’inattesa resistenza ucraina, malgrado la quotidiana tempesta di fuoco dei missili di Mosca che si abbatte sul martoriato territorio ucraino, con l’evidente strategia russa di fiaccare il morale della popolazione e di portarla alla disperazione. Non sta funzionando. Quella di Kiev è una resistenza militare davvero feroce, capace di tenere in scacco l’esercito russo, in una guerra crudele, violenta, spaventosa. E straordinariamente tenace è la resistenza degli ucraini, nel difendere la loro identità e la loro indipendenza.

Una guerra, peraltro, sciagurata pure nei fasulli “colpi di scena” diplomatici, come quello (strombazzato) di un “cessate il fuoco” in nome della “pace natalizia” che avrebbe dovuto rappresentare, nelle intenzioni di chi l’ha proclamato unilateralmente (ossia Putin) una prova delle buone intenzioni russe. Ma la precaria tregua – a partire da mezzogiorno del 6 gennaio 2023 sino alla mezzanotte del 7 gennaio – non ha retto che qualche minuto.

Né gli ucraini né tantomeno i russi hanno provata a rispettarla. Un simulacro di pace ordinato da Putin all’esercito russo lungo tutto il fronte con l’Ucraina, “tenuto conto dell’appello di Sua santità il patriarca Kirill” per rispettare il Natale degli ortodossi (confessione maggioritaria sia in Russia che in Ucraina) che è apparso subito come un annuncio propagandistico. Si è rivelato un miraggio. Per gli ucraini, uno squallido espediente. Per Mosca, la prova che Kiev non vuole la pace.

E’ una guerra sporca, in cui tutto il repertorio bellico è stato dispiegato su grande scala (dalle bombe alle massicce offensive, dai crimini inferti agli sventurati abitanti vittime del conflitto allo tsunami economico ed energetico provocato dagli effetti collaterali dello scontro), in cui nessuno più crede ai miracoli, figuriamoci alla possibilità di negoziare una soluzione accettabile da entrambe le parti, tant’è che subito dopo l’inesistente tregua sono arrivate le ormai abituali indiscrezioni trapelate dalle varie intelligences. Il 7 gennaio campeggia quella che annuncia una possibile, quanto sbalorditiva, nuova mobilitazione russa, 500mila nuovi coscritti che il Cremlino intende mandare al fronte, ed è una notizia esagerata, e, se fosse vera, una notizia drammatica più per i russi che per gli ucraini.

Ad inzigare ci si mette pure il Pentagono, che tuttavia si limita a dire l’ovvio: “Putin non ha cambiato i suoi piani”, sottolineando comunque che le forze russe sono deboli e demotivate. Più un auspicio che una certezza. Oggi la guerra è più che mai scontro ibrido, si combatte sul terreno e sul virtuale, coi cannoni e i missili come coi titoli dei media e le breaking news. Sino allo spasimo. Non vi è purtroppo altra prospettiva.

Parliamo per esempio della tregua natalizia, durata il tempo di un amen. Il patriarca di Mosca è tra i più fidi alleati del presidente russo e tra i più accaniti sostenitori della crociata contro l’Ucraina ribelle: poteva essere credibile, agli occhi soprattutto degli ucraini, il suo appello? No, infatti è stato interpretato come un espediente, un modo per dare ai russi più tempo per riorganizzarsi dopo le recenti batoste che hanno scatenato dissenso e forti (insolite) critiche all’interno della Russia e dello stesso schieramento filoputiniano.

Non a caso, Mykhailo Podoliok, uno dei consiglieri di Zelenski, ha smascherato la tregua come una “cinica trappola” ed “elemento di propaganda”. Perché, secondo Podoliok, Putin ha chiarito più volte che non si fermerà. Ed è è altrettanto vero che l’Ucraina non intende cambiare registro: anche Zelenski ha chiarito che non smetterà mai di lottare per la vita del suo Paese, per la sua integrità territoriale.

In realtà, entrambi i fronti hanno bisogno di una pausa. Ed è questo il momento più delicato di ogni conflitto. Rielaborare strategie, misurare le capacità logistiche, valutare il grado di resistenza delle popolazioni coinvolte, mantenere una linea politica condivisa ai vertici.

La differenza, emersa negli ultimi due mesi, è che gli ucraini appaiono meglio addestrati ed equipaggiati, grazie alle consistenti forniture inglesi ed americane, ed hanno in più una profonda convinzione, quella di stare dalla parte giusta della Storia: difendere la patria aggredita ed invasa. Dobbiamo quindi aspettarci che essi mantengano sotto pressione i russi, e il nemico perlomeno nel Donbass, continuando a colpire obiettivi di qualità (caserme, depositi di munizioni, collegamenti stradali e ferroviari con la Crimea). I russi, dal canto loro, pragmaticamente aspettano la primavera, per la loro nuova offensiva, puntando su una massiccia mobilitazione (50mila uomini sono già al fronte, altri 250mila si stanno preparando per essere operativi a metà febbraio) e su una superiorità di fuoco missilistica: così è lo scenario ipotizzato dal britannico Strategic Studies Institute di Essex, che non induce dunque a riflessioni ottimistiche sul 2023 della guerra.

Va detto, per onestà giornalistica, che in questi giorni le previsioni geopolitiche abbondano ed assomigliano, per la loro varietà, a quelle degli oroscopi. Del resto, ogni previsione fatta nel 2022 è stata smentita dai fatti, a cominciare da quella che assegnava agli autocrati come Putin il dono dell’infallibilità. Il quale si aspettava dall’Ucraina un’accoglienza entusiastica e che l’Occidente accettasse passivamente l’aggressione russa, senza un coinvolgimento significativo da parte di altri Paesi. Questo gravissimo errore di valutazione ha costretto Putin ad affrontare un conflitto prolungato, sanzioni sempre più gravose e una situazione interna di difficile gestione.

Quanto alla possibilità di negoziati, beh, per un accordo di pace bisogna tener conto che le esigenze fondamentali di almeno una delle parti devono cambiare. Per il momento, nulla prova che ciò sia per ora realizzabile. Semmai, saranno gli enormi costi della guerra – materiali, umani – ad indurre i dirigenti russi a valutare la convenienza di continuare un conflitto che sta emarginando Mosca e che, indirettamente, favorisce la Cina. Secondo Barbara Zanchetta, del Dipartimento degli Studi sulla guerra del King’s College di Londra, “la chiave” per risolvere la questione si troverà all’interno della Russia, “le guerre passate in cui un errore di calcolo è stato cruciale, come il Vietnam per gli Stati Uniti e l’Afganistan per l’Unione Sovietica, si sono concluse per questo motivo”, mutando le condizioni politiche interne e “facendo della via d’uscita, onorevole o no, la sola valida opzione”. Si tratterà “sfortunatamente” di una battaglia politica, economica e militare di lunga lena: “Alla fine del 2023, la guerra sarà ancora probabilmente in corso”.

Durante questi 318 giorni, mentre infuriavano le battaglie, i blitz, i bombardamenti, miriade di geopolitici, di strateghi, di psichiatri (e di romanzieri) hanno cercato di capire cosa passasse nella testa di Putin, e decifrarne le intenzioni. Al punto che si è affacciata una nuova “lettura” degli avvenimenti. Riassunta così: la storia russa è una lunga drammatica incalzante epopea in cui logica imperialista e messianismo s’intrecciano, si rincorrono, e della quale Putin è l’ideale continuatore, dagli zar ai dirigenti sovietici. Tutti mossi, secondo questa analisi, dall’ossessiva paranoia di sentirsi circondati e perennemente minacciati, per cui l’unica reazione è quella di garantire e di estendere le frontiere, come aveva scritto Caterina la Grande a Voltaire.

La natura imperiale del potere russo, spiega Françoise Thom, autrice di Putin o l’ossessione della potenza (Litos, 2022), che cita una battuta significativa del presidente russo, nel 2016, rivelatrice a suo dire dello spirito che mobilita la nomenklatura del Cremlino: “Le frontiere della Russia non si fermano da nessuna parte”, il motto dei paracadutisti. Secondo la Thom, da secoli i russi non si considerano come una nazione o come uno Stato, ma come un impero, “ma un impero eternamente minacciato”. Putin ha fatto di tutto per consolidare questo dogma, la propaganda incessante su questo tema è sempre più radicale.

Da qui consegue il paradigma che il pericolo più grave arriva dall’allargamento della Nato, il braccio armato dell’Occidente “diabolico”. Che minaccerebbe per di più i valori cristiani difesi da Mosca, che incarna – è il destino della sua storia – la “terza Roma”. Ed il patriarca Kirill, colui che ha invocato e benedetto la tregua di Natale, gioca un ruolo centrale nell’ambizioso progetto imperiale di Putin.

Altro corollario: la verticale del potere costruita da Putin è ormai vera e propria autocrazia. Impero e autocrazia sono indissolubilmente legati. L’uno giustifica l’altro. Quindi, è necessario, nel disegno putiniano, ridare alla Russia avvilita dalla perdita del rango di superpotenza, la sua naturale grande potenza cominciando a riesercitare il controllo dei Paesi limitrofi (come al tempo dell’Urss) e di imporre, all’interno, un sempre più soffocante controllo della società, perseguitando i dissidenti, incarcerandoli, andando a stanare i dirigenti “traditori”, “opportunisti” (e liquidare, “suicidandoli”…). Controllo ferreo dei media, e, tentativi di instaurare dirigenze filorusse nei Paesi confinanti, nonché di influenzare le opinioni pubbliche dei Paesi europei.

Sostiene Françoise Thom che tutto ciò è lo scenario che ha spinto Putin ad attaccare ed invadere l’Ucraina, rea di avergli voltato le spalle, anzi, di avere accettato l’abbraccio interessato dell’Occidente e di volere entrare nella Nato. L’Ucraina deve essere “ripresa” da Mosca. Se non ci riescono, se non controllano il loro vicino come fanno con la Bielorussia, il rischio è di compromettere il prestigio e la potenza russa, perché avrebbe avuto la meglio il complesso militare industriale ucraino massicciamente sostenuto dall’odiato Occidente, e lo stesso sarebbe per i quadri dirigenti meglio formati rispetto ai russi, l’agricoltura, l’industria, l’esercito… senza Ucraina, ha dichiarato Igor Guirkin, uno dei leader separatisti del Donbass, la Russia non sarebbe altro che un tronco senza braccia e senza gambe.

La storia russa insegna inoltre che la guerra è un test di volontà e di logistica. E pure qui, la volontà degli ucraini nel resistere al Golia russo è ammirevole; e la loro logistica è più efficiente, più dinamica, meno ingessata. Sopperisce all’impari confronto con l’arsenale russo. Ma quanto potrebbe durare questa resistenza? La risposta la conoscono tutti: quanto durerà l’aiuto concreto, pragmatico, dell’Occidente. E’ una guerra fortemente asimmetrica. Di tecnologie contrapposte. Di scuole strategiche. Una sfida nella sfida. In cui la determinazione del popolo e dei soldati ucraini ha un grosso ruolo ed è uno stimolo psicologico che sopperisce alle difficoltà oggettive (la guerra di logoramento imposta dallo stato maggiore russo, che riproduce la strategia in Siria e in Cecenia, ossia fare tabula rasa del territorio per poi sferrare l’attacco definitivo). La grande scommessa è: vincerà il lento macinare delle forze ucraine che puntano obiettivi sensibili, o il martellante logorìo russo? Vincerà la qualità degli armamenti tattici occidentali o la quantità del potenziale bellico russo?

La tregua natalizia ortodossa è solo una finzione, oltre che una funzione (religiosa). Gli assestamenti dei fronti, l’arrivo della primavera, insomma, i prossimi due-tre mesi ci diranno come potrebbe finire la guerra, dopo il gelo e il fango, la risposta la daranno le armate in campo, le loro dislocazioni, l’armamento pesante, i veicoli blindati, la dipendenza crescente della Russia nei confronti dei mercenari Wagner (aumentati a 20mila unità). Comunque, oggi come oggi la guerra in Ucraina ha rovinato l’immagine di un esercito russo efficace e ben gestito. In fondo, sinora, il generale Sergej Surovikin, nuovo capo delle forze armate russe coinvolte in questa sciagurata campagna militare, può solo vantare di aver fatto saltare centrali elettriche, condomini, ospedali, infrastrutture.

Ciò che definirà questo conflitto, a prescindere da chi vincerà, è il divorzio definitivo tra Russia ed Ucraina, mentre cresceranno a dismisura sfiducia e diffidenza tra tutti gli altri vicini della Russia, perché Putin è andato oltre ogni limite, colpendo non solo obiettivi militari, ma obbligando un quarto della popolazione a sfollare, a distruggere città e massacrarne gli abitanti. Un bilancio politicamente insopportabile, per il Cremlino che il 24 febbraio scorso aveva annunciato una rapida e risolutiva “operazione” per debellare i nazisti di Kiev (con annesso tentativo di uccidere il presidente Zelenski). E persino la Cina, non ha interesse che lo scontro indiretto di Mosca con Washington e i suoi alleati continui. E’ vero che Mosca e Pechino condividono una posizione comune contro l’Occidente. Tuttavia, la differenza è che la Cina è una potenza in ascesa, la Russia nonostante i proclami putiniani, è una potenza in declino. Incapace di domare e sconfiggere l’Ucraina. E’ facile scrivere il romanzo nazionalista del proprio Paese, per confortare il proprio potere, però è assai più difficile raccontare che la trama non è quella annunciata.

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