“Non sarò uno speaker debole”. Il repubblicano Kevin McCarthy, subito dopo la sua elezione, ha voluto mettere le cose in chiaro. A chi gli rimproverava, anche tra i suoi compagni di partito, di aver fatto troppe concessioni alla destra radicale, McCarthy ha risposto negando e rassicurando. I repubblicani, ha spiegato, saranno sotto la sua guida capaci di far avanzare l’agenda legislativa conservatrice. In realtà, la sua elezione così combattuta è il segnale di un partito repubblicano sconvolto da faide interne, che mettono a rischio la stabilità dell’assetto politico e istituzionale statunitense.

Lo speaker senza qualità – La débacle di McCarthy ha ragioni diverse: personali, storiche e relative alla forma che la politica repubblicana è destinata ad assumere nei prossimi mesi. Vediamo, anzitutto, quelle personali. McCarthy è politico di scarsissima visione e nessuna sostanza ideologica. Non ha, per intenderci, le qualità degli speaker repubblicani che l’hanno preceduto: né il solido pragmatismo di John Boehner né la finezza ideologica di Paul Ryan. Deputato della California, allievo di un repubblicano della vecchia scuola come Bill Thomas, McCarthy cercò nel 2015 di sostituire Boehner come speaker, ma fu sconfitto proprio da Ryan. Da allora, la sua strategia è stata soprattutto una: creare una rete di rapporti e alleanze tale da garantirgli l’elezione ai vertici della Camera.

Fedele a Trump – Con un partito repubblicano che nell’ultimo decennio si è spostato sempre più a destra, McCarthy non ha avuto alcun problema a seguire l’onda. Ha stretto i rapporti con il Freedom Caucus, il braccio più conservatore del Congresso. Si è accompagnato politicamente a personaggi ampiamente squalificati come Marjorie Taylor Greene (la deputata secondo cui le misure anti-Covid ricordano quelle a danno degli ebrei durante l’Olocausto). Soprattutto, ha legato a doppio filo il suo destino a quello di Donald Trump, unendosi a 140 colleghi repubblicani nel denunciare brogli elettorali (mai dimostrati) alle presidenziali 2020. Il suo zelo ha raggiunto risultati a volte comici. Dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, McCarthy denunciò le responsabilità politiche di Trump, che non avrebbe fatto nulla per bloccare le violenze. Poche settimane dopo, McCarthy volò a Mar-a-Lago per rendere omaggio proprio a Trump e disconoscere quello che, sino a quel momento, aveva detto.

La disponibilità al compromesso – Questa fedeltà alla fine ha in qualche modo pagato. Proprio Trump è stato fondamentale per l’elezione di McCarthy. Ha personalmente chiamato molti dei ribelli – soprattutto i due nemici più tenaci del nuovo speaker, Andy Biggs e Matt Gaetz – e ha chiesto loro di sostenere McCarthy o almeno di cambiare il loro voto da no a “present”. Fedeltà, zelo, ambizione non sono però stati capaci di garantire a McCarthy il rispetto del suo stesso gruppo. Quindici votazioni consecutive per eleggerlo (qualcosa che non succedeva dal 1859) sono il segnale che McCarthy non solo non gode di particolare considerazione, ma non controlla una fetta importante di voto repubblicano. Durante le convulse trattative che hanno portato alla nomina, McCarthy ha evitato di incontrare direttamente i suoi avversari e ha preferito inviare emissari o contare sulle pressioni di maggiorenti repubblicani come Trump. La capacità di impegnarsi in una sorta di “diplomazia diretta” con amici e nemici è una qualità essenziale per uno speaker (Nancy Pelosi ne era maestra) e McCarthy dimostra di non avere nemmeno questo. In altre parole: McCarthy è stato eletto ma il suo non è un trionfo. La disponibilità a qualsiasi tipo di compromesso, pur di ottenere un vantaggio politico, lo rende uno speaker poco rispettato e soprattutto molto ricattabile.

La metamorfosi del partito repubblicano – Oltre alla vicenda personale, i quattro turbolenti giorni alla Camera hanno però anche un importante risvolto storico. Si sbaglierebbe a pensare che McCarthy sia la prima vittima (repubblicana) dell’ultradestra Usa. Quanto successo ora nell’elezione dello speaker affonda le sue radici in un partito repubblicano che negli ultimi trent’anni ha conosciuto una deriva sempre più populista e restia alle necessarie mediazioni della politica. Newt Gingrich conquistò la Camera nel 1994 con un programma fatto di zero compromessi e nessuna collaborazione con la Casa Bianca di Bill Clinton. Una delle frasi più celebri di Gingrich era: “Il problema è che noi nel partito repubblicano non vi incoraggiamo a essere abbastanza cattivi”, e l’allora speaker spese milioni di dollari in una campagna politica volta a esaltare i particolari più luridi dell’affaire Monica Lewinski. “Fino a quando sarò speaker – disse Gingrich – non ci sarà un mio discorso in cui non farò riferimento a questa storia”.

Alla fine, nel 1998, Gingrich cadde vittima delle forze più radicali del suo partito – quelle che lui aveva alimentato -, che si opposero all’accordo di bilancio che Gingrich aveva chiuso proprio con Bill Clinton. Quelle forze non sono mai scomparse dal palcoscenico della politica repubblicana, soprattutto alla Camera. Negli anni hanno assunto forme e sigle diverse – il Tea Party, o il MAGA trumpiano – mantenendo però caratteristiche politiche e ideologiche molto simili: il sospetto verso il governo centrale, il disdegno per le classi dirigenti di Washington, l’esaltazione di un individualismo esasperato, la tendenza alla polarizzazione e il rifiuto dei compromessi. Gli stessi Boehner e Ryan, da speaker, furono continuamente tormentati dall’ala più radicale del loro partito, che si opponeva al finanziamento del governo di Washington, agli interventi di emergenza a sostegno delle comunità colpite dai disastri naturali, alla ri-autorizzazione di consolidati programmi federali. Nei guai di Kevin McCarthy c’è quindi l’eco diretto di un processo antico e di quello che il partito repubblicano è diventato in questi anni.

La spada di Damocle – E veniamo quindi all’ultimo punto della questione, che riguarda il futuro. Le concessioni che McCarthy ha fatto per diventare speaker sono sostanziali, tanto che il suo principale nemico e alfiere dei ribelli, Matt Gaetz, è arrivato a dire: “Ho esaurito le cose da chiedere, qualcosa che un tempo non avrei potuto immaginare”. Alla destra del Freedom Caucus è stato riconosciuto almeno un terzo dei componenti del Rules Committee, la commissione della Camera che si occupa di come le leggi vengono scritte e di come raggiungono l’aula per il voto. Una miriade di nuove regole dà ai singoli deputati maggiori poteri di revisione delle leggi, cosa che sicuramente conterà quando, per esempio, ci sarà da autorizzare l’innalzamento del tetto del debito. Soprattutto, McCarthy con le sue concessioni si è piazzato una perenne spada di Damocle (politica) sulla testa. D’ora in avanti un singolo deputato potrà, in ogni momento, chiedere un voto dell’aula per rimuovere proprio lo speaker. L’azione di McCarthy sarà dunque soggetta a continua revisione, controllo, verifica. Nel caso facesse qualcosa di non gradito agli ultra-conservatori, potrà partire una, o più azioni, per cacciarlo.

Ecco dunque perché, a dispetto delle dichiarazioni di facciata, Kevin Mc Carthy sarà uno “speaker debole”. Di più: McCarthy sarà lo speaker di un partito che, in settori sempre più ampi della sua classe dirigente, ha rifiutato il pragmatismo e scelto l’ideologia; un partito che pare segnato da un profondo caos interno e che questo caos rilancia sulle istituzioni e sull’azione legislativa. Subito dopo la nomina, Joe Biden ha inviato gli auguri di buon lavoro, dicendosi pronto a lavorare insieme a McCarthy e ai repubblicani della Camera. La sensazione è che i prossimi due anni, più che da un clima di collaborazione, saranno segnati da continue risse, polarizzazione e nuove tensioni per la già affaticata democrazia americana.

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