Matteo Salvini scivola, come Angelino Alfano, sugli scontri tra ultras di Napoli e Roma. A quasi nove anni di distanza, sull’onda dell’indignazione, torna di moda il “mai più allo stadio” per i tifosi violenti. Il ministro delle Infrastrutture, già ministro dell’Interno, dimentica che la legge Amato di fatto lo aveva previsto ma alla fine è stata cambiata perché inapplicabile. Una norma mai applicata, sulla quale negli scorsi anni l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive aveva perplessità e arrivò a chiedere un intervento poiché, secondo molti, presentava profili di incostituzionalità. Salvini, insomma, scivola più o meno come fece l’allora ministro dell’Interno Alfano dopo gli scontri in occasione della finale di Coppa Italia 2014 a Roma nei quali perse la vita il napoletano Ciro Esposito. Eppure l’attuale durata massima dell’espulsione dagli stadi – estesa a 10 anni in caso di recidiva – è stata normata proprio da lui.
“Questi non sono tifosi. Autostrada chiusa e viaggiatori italiani bloccati? Paghino tutti i danni di tasca loro, e mai più allo stadio”, è stato il commento a caldo di Salvini dopo la guerriglia scatenatasi lungo la A1 all’altezza di Arezzo tra ultras partenopei e romanisti. Eppure c’è stato un momento in cui la legge, se applicata in senso letterale, aveva previsto cancelli chiusi per sempre per chi si è scontrato con polizia o tifosi avversari in occasione di manifestazione sportive. Ma la norma che colpiva “di lato” i destinatari di Daspo era di fatto impossibile da applicare e venne cambiata proprio pochi mesi dopo gli scontri di Roma che costarono la vita a Esposito.
L’articolo 9 della legge 41/2007, che si occupava di “misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche”, vietava alle società di “emettere, vendere o distribuire titoli di accesso a soggetti che siano stati destinatari” di Daspo. Insomma, un’interpretazione letterale e restrittiva rischiava di chiudere per sempre i cancelli dello stadio a chiunque avesse subito un Daspo, anche venti o trent’anni fa. Nel 2009 e 2011 persino l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, che ricade sotto il ministero dell’Interno, aveva chiesto un intervento poi arrivato il 22 agosto 2014 con un decreto legge del governo Renzi. Con quel provvedimento il “siano stati destinatari” venne sostituito con “siano destinatari”, chiarendo che solo chi ha un Daspo in corso non può entrare allo stadio. E venne anche aggiunto il “nel corso degli ultimi cinque anni” a un’altra frase ambigua dell’articolo che recita “a soggetti che siano stati, comunque, condannati anche con sentenza non definitiva, per reati commessi in occasioni o a causa di manifestazioni sportive”. Modifiche insomma rese necessarie da profili di incostituzionalità sollevati dai più volte dai legali che si occupano della materia, ma non solo come testimoniato dalle determinazioni dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive.
Ad oggi il Daspo, inasprito e ampliato dal decreto Sicurezza 2, può durare al massimo per 10 anni in caso di recidiva. Del resto, se avesse voluto (e potuto), Salvini – che in quel periodo si fece fotografare con il capo-ultras del Milan Luca Lucci, già noto per reati dentro e fuori gli stadi – avrebbe potuto intervenire con un “mai più allo stadio” proprio con quel provvedimento che è una sua bandiera politica. Dovendosi basare sulla “pericolosità attuale” del destinatario del provvedimento è facilmente intuibile come una misura così restrittiva non possa non avere un limite temporale. Ad avere in questo momento un Daspo, secondo i dati più aggiornati che risalgono al 31 ottobre 2022, sono 6.343 persone e nel corso della stagione sportiva 2021/22 i provvedimenti emessi sono stati 1.741. Quei oltre 6.300 nominativi sono inseriti nella “black list” gestista dal Centro elettronico nazionale della Polizia di Stato insieme a coloro che hanno avuto una condanna per reato da stadio negli ultimi 5 anni, detratto il periodo di Daspo scontato per lo stesso episodio.