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Al-Bihani, lo yemenita che resta a marcire a Guantánamo

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Dopodomani, mercoledì 11 gennaio, il centro di detenzione statunitense in territorio cubano di Guantánamo entrerà nel suo ventiduesimo anno di attività, malgrado i ripetuti appelli per la sua chiusura. Aperto l’11 gennaio 2002 per interrogare, al riparo dalle protezioni internazionali, uomini di religione musulmana sospettati di far parte della rete globale del terrorismo, Guantánamo resta una macchia nella storia contemporanea degli Stati Uniti.

Delle circa 780 persone che vi sono state portate, ne sono state processate solo otto. Altri 12 processi sono in corso. Oltre il 90 per cento di esse è stato rimandato nel luogo d’origine o in uno stato terzo, senza mai essere stato accusato di qualche reato né tantomeno processato.

A Guantánamo restano ancora in 35: i 12 sotto processo e 23 mai incriminati. Per 20 di questi ultimi è già stata disposta, da tempo, la rimessa in libertà. Toffiq al-Bihani, yemenita, è uno di loro. Mercoledì saranno trascorsi 21 anni dal suo arrivo a Guantánamo.

Prima di esservi trasferito ha fatto il giro di varie strutture gestite dalla Cia (i servizi segreti militari Usa) in Afghanistan, all’interno delle quali è stato sottoposto a mesi d’isolamento e tortura. Come altri yemeniti trattenuti a Guantánamo, non può essere trasferito nello stato di origine perché, con un conflitto ancora in corso, le molteplici autorità che si contendono il territorio non offrirebbero le garanzie, pretese dagli Usa, di una detenzione sicura.

Ovviamente, nessun funzionario statunitense è stato mai chiamato a rispondere della sparizione forzata, della detenzione illegale e delle torture inflitte ad al-Bihani.

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