L’invasione domenicale da parte di migliaia di fanatici bolsonaristi nella Praça dos Três Poderes, dove si ergono gli sfarzi architettonici dei tre poteri federali, quello legislativo rappresentato dal Congresso Nacional (Câmara e Senado), Executivo dal Palácio do Planalto, e il Supremo Tribunal Federal (STF) – gotha del potere giudiziario – ha colto di sorpresa le forze dell’ordine, che Lula Da Silva, rieletto presidente con stretto margine di scarto su Jair Bolsonaro, ha accusato apertamente di connivenza con gli assalitori.

Pur se non ci sono state vittime, vandalismi e distruzione negli ambienti istituzionali sono ingenti, soprattutto nel Senato e negli uffici della Corte Suprema. Il governatore di Brasilia Ibaneis Rocha si è scusato con Lula scaricando il barile sul capo della polizia ma è stato ugualmente rimosso per tre mesi dal suo incarico per mano del giudice Alexandre de Moraes. Oltre 300 arresti, e unanime condanna internazionale, in particolare da parte del presidente francese Macron e di Joe Biden, che ha minacciato di cacciare Bolsonaro, ora in Florida, dagli Stati Uniti.

Biden ha il dente avvelenato nei riguardi dell’ex premier, fedele alleato del suo acerrimo rivale Donald Trump, anche perché questo triste episodio sembra fotocopiare l’assalto al Capitolio di Washington dopo la sua elezione.

L’altra faccia della medaglia

Se questo indegno evento chiude tristemente l’altrettanto indegna presidenza precedente, esistono dei risvolti inquietanti che la stampa estera ha trascurato.

Sei settimane fa, Bolsonaro e il Partito Liberale hanno chiesto al Tribunale Elettorale di verificare le urne di fabbricazione UE2009, UE2010, UE2011, UE2013 e UE2015, che secondo una loro perizia esibivano un numero di matricola identico, mentre al contrario ogni urna elettorale dovrebbe esibire un codice univoco appunto per evitare contraffazioni. Il presidente Moraes ha ricusato la richiesta come inconsistente, poiché, secondo lui, le urne in questione vengono contrassegnate da un codice differente da quello riferito dal PL. Il ministero della Difesa interpellato sulla questione ha risposto che il sistema presenta delle fragilità e potrebbe essere manomesso, ma l’unico modo per appurarlo è quello di entrare in possesso dell’algoritmo del programma, autorizzazione che può venire solo da STF, la Corte Suprema, la quale ha ripetutamente negato, ritenendo altresì che non sia stata commessa irregolarità alcuna.

Da allora sono sfilati per il Brasile lunghi cortei di protesta, pesantemente critici nei confronti di STF, seguiti da diversi fermi e arresti ordinati sempre da Moraes. Successivamente veniva emanato dalla presidenza della Repubblica un decreto molto restrittivo sulla disinformazione rivolto alla stampa, simile per certi versi alla nuova legge sulle intercettazioni voluta da Nordio che punisce anche con il carcere i giornalisti che le pubblichino senza rispettare i nuovi parametri.

Le vicende giudiziarie

Quando si scrive sulla classe politica brasiliana – cioè una delle più corrotte del Pianeta – bisogna tenere conto del fattore-chiave: qualsiasi candidato alla Presidenza cerca di arrivare al potere con ogni mezzo possibile; che sia di destra o di sinistra, non ha più importanza. Ormai, come in Italia, questi sono termini obsoleti che non si applicano agli schieramenti in campo, e alle loro alleanze di comodo.
Gli affari, il business, innanzitutto.

In Brasile costoro mirano essenzialmente all’impunità, per se stessi, per i loro sodali e familiari vari, e il caso dei figli degeneri di Bolsonaro, Flávio ed Eduardo, con la loro racadinha – una delle concussioni più infami, costringere un dipendente a consegnare al proprio capo parte del suo stipendio per conservare il posto – lo ha dimostrato ampiamente.

(Congresso Nacional a Brasília. Foto ©Bacchetta)

Una volta conquistato il ponte di comando, e sistemati i propri in Parlamento, essi, dal Presidente in giù, usufruiranno del più volte menzionato Foro Privilegiado, cioè l’immunità parlamentare alla brasileira, grazie alla quale potranno essere giudicati esclusivamente da STF, i cui membri più eminenti – dopo l’uscita di Mello – rimangono Toffoli Lewandowski e soprattutto, l’ex presidente della Corte Suprema Gilmar Mendes, sul cui capo tuttora pende l’infamia di varie accuse di corruzione: a titolo personale dai tempi di Cardoso, e successivamente per coprire i suoi protetti, tra i quali spiccano il finanziere Daniel Dantas e l’ex presidente del PSDB, Aécio Neves.

E Lula non è esente da questo circolo vizioso: non mi riferisco al triplex di Guarujá di cui mi interessa poco, e per il quale, innocente o meno, ha già scontato quasi due anni di detenzione. Ma al profondo marciume nel quale affonda il suo partito, il PT, coinvolto negli scandali più rovinosi dell’ultimo ventennio, che egli ha comunque avallato.

Mendes ha tirato per la giacchetta gli altri ministri della Corte Suprema per farli votare a favore dell’accusa di parzialità ai danni di Sergio Moro – peraltro meritata per via dell’accanimento giudiziario del giudice – annullando la sentenza di Curitiba e in pratica decretando l’assoluzione di Lula, pur rimanendo in piedi l’impianto probatorio anche se ormai possiamo considerare archiviata la ripetizione del suo processo.

E rimanendo nell’ambito giudiziario, lo stesso presidente del TSE (Supremo Tribunale Elettorale, costola di STF) Moraes, già citato, ha tirato la volata a Lula ben due volte: la prima, censurando un passaggio dell’intervista al ministro Marco Aurélio Mello il quale aveva rimarcato che Lula non era stato assolto, poiché essendo la vecchia sentenza cancellata, la procedura doveva ripartire ex novo in altra sede e con un altro giudice istruttore. La seconda, quando ha dichiarato infondate le richieste di accertamento sul difetto di matricola delle urne riscontrato dal Partito Liberale, pur a fronte di una perizia del Ministero della Difesa che, come ho già argomentato, aveva ammesso che il sistema era vulnerabile e poteva essere hackerato. E che l’unico modo per accertarlo, era di acquisire il codice sorgente del programma.

Possibilità che il STF non ha concesso, contribuendo a montare la protesta, sfociata poi nell’attacco alle istituzioni di domenica scorsa.

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