Un celebre caso di cronaca. Ma anche un giallo, una biografia, un diario personale, un romanzo-documento con incursioni poetiche. L’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, “Dove non mi hai portata” (Einaudi), è un tuffo nella memoria personale e storica. Fra episodi realmente accaduti e ricordi di chi c’era, ha visto e ascoltato, si tesse la trama di un disegno intimo e al tempo stesso di rilevanza sociale. E’ il 1965 quando Lucia e Giuseppe abbandonano nel parco di Villa Borghese a Roma la figlia di otto mesi. Poi spediscono una lettera al giornale L’Unità e si gettano nel Tevere. Quella bambina abbandonata è Maria Grazia, che messa in un istituto e poi adottata, diventerà scrittrice e madre. A oltre 50 anni dall’accaduto l’autrice di “Splendi come vita” torna nei luoghi in cui la madre ha vissuto, sofferto, lavorato. Indaga sul suo passato di donna infelicemente sposata con un marito padrone, sul suo innamoramento e la sua fuga. Comprende il punto di vista e la disperazione dei due amanti, i genitori biologici, per ricostruirne stati d’animo e contesto. Non esisteva il divorzio, l’adulterio femminile e l’abbandono del tetto coniugale erano un reato.
“Dove non mi hai portata” è un libro intimo eppure pubblico. Racconta una scheggia di storia d’Italia e di vite femminili interrotte. Grazie agli articoli di cronaca dell’epoca, Calandrone fa emergere un Paese che non lasciava vie di fuga alle donne non allineate. Il suo viaggio comincia così: “Di mia madre, ho soltanto due foto in bianco e nero. Oltre, naturalmente, alla mia stessa vita e a qualche memoria biologica…”. La prima foto a cui fa riferimento l’autrice ritrae la madre nel 1959 nel giorno del suo matrimonio con Luigi. “Lucia ha ventidue anni, veste in bianco integrale e non sorride. Nella fotografia in bianco, lo sguardo della sposa risucchia l’intera scena in una vitrea assenza di vita. Lucia fa gli occhi lisci della preda che finge di non esserci, arretra in uno sguardo impenetrabile, dove il mondo è un paesaggio di bestie aguzze e senza sogni…”.
Calandrone, perché questo libro?
Per una fortunata coincidenza. Era il 16 febbraio del 2021. Dopo la partecipazione a una trasmissione televisiva in cui presentavo il romanzo “Splendi come vita”, sulla mia esperienza di figlia adottiva, tante persone mi scrissero sui social per dirmi che avevano conosciuto Lucia, mia madre biologica. Erano di Palata, il paese in provincia di Campobasso dove lei aveva vissuto. Allora ho deciso di andare sul posto e, grazie a testimonianze e documenti, ho ricostruito la sua vita.
Che cosa è emerso?
Che mia madre è stata “costretta” a sposarsi con Luigi, un possidente di terre, un uomo autoritario. Non solo lei non lo amava, ma non accettava la sua prevaricazione. Chiese aiuto alla famiglia d’origine per interrompere quel matrimonio non voluto ma tutti le consigliarono di mantenere inalterata la situazione. Cosa avrebbe fatto se no? Lavorava nei campi. Era una contadina al servizio del marito. Una donna che teneva un suo diario segreto in cui annotava giorno per giorno i suoi desideri.
E’ così che ha scoperto la nascita della relazione di sua madre con suo padre?
Giuseppe era un piccolo imprenditore arrivato all’improvviso in paese. Doveva costruire la rete fognaria e idraulica nelle campagne. Si sono conosciuti e innamorati. Ma le voci cominciavano a girare. Nel libro scrivo: “Risolini, battute, chiacchiere, ammiccamenti, il veleno che spira dalle porte socchiuse. E Luigi la picchia più forte. Per una volta vuole fare l’uomo, vuole fare vedere chi comanda, a quella spudorata, e a tutti quelli che non stanno zitti”. Mia madre era considerata una svergognata. Nonostante tutti sapessero che quel matrimonio non la rendeva felice.
Non aveva ancora figli: all’epoca per una donna era un’onta?
Uno stigma. Quattro anni di matrimonio senza figli: la colpa doveva per forza essere della donna. Una donna che non era buona a fare figli non valeva niente. Pensi che per aumentare la fecondità la mutua passava dei trattamenti di acque termali. E mia madre infatti si sottopose a quelle cure. Ma niente.
A un certo punto sua madre decide di scappare via da quella situazione insostenibile…
Infatti. I miei genitori, da amanti, decisero di andare a vivere insieme in un paese vicino. Poi fuggirono a Milano. Ma su Lucia gravava la denuncia di adulterio, concubinaggio e abbandono del tetto coniugale, reati penali. Erano entrambi ricercati. Infine raggiunsero Roma. Scrissero una lettera all’Unità con il mio nome, mi abbandonarono sapendo che qualcuno mi avrebbe trovata. Si suicidarono.
Li ha perdonati?
Mi hanno sempre fatto una grande compassione. Soprattutto oggi, perché ho capito che era una questione di dignità. Mi dispiace soltanto non aver conosciuto mia madre, che all’epoca aveva solo 29 anni.
Se fossero vivi quali domande avrebbe per loro?
Non avrei domande. Direi loro soltanto una cosa: potevate farvi aiutare. Erano gli anni del femminismo: forse avrebbero potuto trovare associazioni in grado di sostenere la loro scelta.
Ha mai conosciuto il marito di sua madre?
Molto tempo fa. Nel frattempo è mancato. Ma ho ricostruito il loro infelice matrimonio grazie alla testimonianza del nipote quando mi sono recata a Palata. Fra i documenti ritrovati c’è anche una sua lettera in risposta alle suore dell’istituto a cui ero stata affidata come figlia illegittima, prima di essere adottata. Le suore gli chiedevano il pagamento della retta ma lui rispondeva che non era mio padre, che non doveva niente e che anzi, era “cornuto”. E’ pubblicata integralmente nel libro.
Oggi chi sono i suoi genitori, quelli biologici o adottivi?
Mio padre adottivo è morto che avevo dieci anni. Mia madre adottiva ha avuto un tracollo e mi ha rovesciato addosso tutto quel dolore. L’ho raccontato in modo poetico nel romanzo “Splendi come vita”. Tuttavia, nonostante i conflitti, considero lei la mia vera madre. Avevo quattro anni quando mi ha rivelato dell’adozione. Ora ho due madri nel cuore.
Che consiglio darebbe a chi adotta oggi?
Ho scoperto che sentirsi inadeguati come genitori adottivi è una sensazione che hanno in molti. Sulla mia pelle posso dire che, fra madre biologica e naturale, non c’è differenza. La portata del sentimento è la stessa. I figli però vanno trattati allo stesso modo. “Non ti posso picchiare perché non sei mia figlia”, questa è una frase terribile, una forma di riguardo che è peggio di uno schiaffo. Ecco il mio consiglio: trattate i figli adottivi come naturali.
Oggi a suo avviso la realtà delle donne è cambiata?
Dal punto di vista legislativo sì. Ma c’è ancora molto lavoro da fare. Pensiamo che tanti diritti siano acquisiti ma non è vero nella mentalità. Potrebbe accadere ancora oggi ciò che è accaduto a mia madre. Nei paesini di provincia c’è ancora molto pregiudizio. Storie come quella di Saman possono accadere.
Come ha influito questa vicenda sulla sua maternità?
Mi ha reso incapace di abbandonare. Inoltre da questa ferita è nata la mia necessità di scrivere. Un dettaglio emozionante: ho cercato fra centinaia di fotografie negli archivi scolastici dell’epoca la foto di mia madre. Ho riconosciuto subito il suo viso grande come una lenticchia. E’ uguale a mia figlia.