di Ilaria Muggianu Scano
Et però credo che molta felicità sia agli uomini che nascono dove si trovano i vino boni, sosteneva Leonardo da Vinci. Insomma tutto concorre a dissuadere, o quanto meno a far sospirare e a far sospirare gli aspiranti astemi sfidati dalla sorte ad alleggerire il bicchiere, o a farlo per il solo mese di gennaio, giusto per incoraggiare un approccio detox alla primizia del nuovo anno, consuetamente lastricata di buoni propositi disattesi.
Nasce così nel Regno Unito, ed è quasi al termine del suo secondo lustro di vita, la prima challenge ufficiale dell’anno: il Dry January. Ma siamo poi così socialmente liberi di rinunciare a bere? Se solo dovessimo basarci sui trend setter la risposta è no. Normalmente le serie televisive, ad onta di quanto si pensi, non hanno il potere di lanciare i trend, dettare mode, ma certo di generare hype e unificare, normalizzare, consolidare un business già nell’aria, questo sì.
Rinunciare a bere è pressoché impossibile, pena la nostra presunta socialità. Il bicchiere ha il valore taumaturgico per il popolo di Netflix delle serie di costume – quali Younger, The bold types, Emily in Paris, And just like that, per citare giusto i più recenti – tanto quanto la sigaretta depressurizzante delle tribolazioni di James Dean di Giovenù Bruciata, dei teenagers maledetti di Beverly Hills 90210 o Melrose Place o dei guai d’alcova di Carrie Bradshow. Non c’è grattacapo che non si possa televisivamente annegare in un Daiquiri, uno Shirley Temple o un qualsiasi drink iconico, a qualsiasi ora del giorno e a qualsiasi età.
Ma quando vuole, il Regno Unito sa prendere per il bavero la cultura del piagnisteo e propone soluzioni tampone intelligenti, o almeno ci prova. Il Dry January è una di queste. Trenta giorni di detox da alcool, senza se e senza ma. Ad asciugarsi non sono soltanto i grandi brand dell’industria del beverage ma certamente corpo, pelle e mente.
I primi benefici del Dry January iniziano a percepirsi sensibilmente dopo le prime 72 ore e secondo la Alcohol Concern Uk, associazione no profit, promotrice dell’iniziativa partita del 2013, sostiene che siano sufficienti tre settimane a decostruire l’abitudine all’alcool (non patologica, corre l’obbligo di ricordare) e altrettante a orientare una giusta attitudine alla sobria consumazione, che per l’uomo è di due calici e mezzo e uno e mezzo per la donna, ma su Twitter all’account @dryjanuary o all’hashtag #DryJanuary si reperiscono numerose informazioni scientifico medico nutrizionali e persino motivazionali per chi durante i trenta giorni inciampa qui e là durante il più laico dei ramadan.
Secondo il sondaggio condotto da Alcohol Concern il 62% dei 7 milioni partecipanti alla challenge ha dichiarato di dormire meglio, il 42% sostiene di aver perso peso, il 79% assicura di aver beneficiato di un grandissimo risparmio grazie all’astinenza. Rimane da capire come i più virtuosi ma sensibili all’austerità genuariana riusciranno a superare il celeberrimo Blue Monday, ormai più noto di Halloween, del Black Friday e di qualsiasi altra istituzione assimilata da oltreoceano.
Il terzo lunedì del mese di gennaio è considerato il giorno più triste dagli abitanti dell’emisfero boreale a partire da un’istanza del canale televisivo britannico Sky Travel, il quale avrebbe dedotto la data basandosi su un’equazione pseudoscientifica che farebbe storcere il naso al CICAP. Ad ogni modo: un brindisi-ossimoro al Dry January, che nonostante non sponsorizzi alcun prodotto – anzi è l’anti business per eccellenza – è la sfida ormai più longeva e famosa dei social.