È morto a 80 anni Franco Sebastio, ex procuratore della Repubblica di Taranto, il magistrato che ha guidato il pool di inquirenti che ha portato alla sbarra la famiglia Riva insieme a una parte della politica locale e regionale nella maxi inchiesta “Ambiente svenduto” sull’Ilva di Taranto. Poliziotto, cancelliere, magistrato e poi politico e ancora manager. Mille vite, tutte vissute con la stessa passione e il sorriso perennemente stampato sul volto. Nel 1962 aveva vinto un concorso come cancelliere alla pretura di Fasano, in provincia di Brindisi, sulle orme del padre e del nonno, entrambi cancellieri a Taranto, ma nel 1969 Franco Sebastio fece il salto superando le prove che gli permisero di indossare la toga come magistrato. Il primo incarico fu quello di pretore a Gallarate fino agli anni della leva nella Marina, a Taranto. Poi il ritorno in magistratura come pretore a San Pietro Vernotico, sempre nel Brindisino, infine nel 1976 l’approdo a Taranto, come pretore prima, poi procuratore presso la pretura, quindi procuratore aggiunto presso la Procura dal 2000 al 2008, e da allora alla fine del 2015 procuratore della Repubblica.
La questione ambientale, insieme al fenomeno dell’usura, è stata da sempre una delle sue principali battaglie. Già nel 1982 il giovane pretore Sebastio condannò in primo grado i vertici del quarto Centro siderurgico italiano per getto pericoloso di cose: l’industria era di Stato, i dipendenti erano quasi il triplo di oggi, ma per lui la salute veniva prima di ogni cosa. Quelle udienze, ha ricordato nelle numerose interviste, erano deserte: “Non c’era alcun movimento ambientalista, nessun sostegno dell’opinione pubblica all’opera dei magistrati, ma non era importante: non abbiamo mai cercato la ribalta” aveva raccontato a ilfattoquotidiano.it. Quando l’Ilva finì nelle mani dei Riva, nacque l’inchiesta sulla “Palazzina Laf”, una specie di lager in cui la proprietà confinava i lavoratori scomodi o sgraditi. Anche quella inchiesta portava la firma di Sebastio che, insieme al giovane collega Alessio Coccioli, firmò il sequestro dell’area e ascoltò decine e decine di lavoratori che svelarono l’inferno di quegli anni. La Palazzina Laf divenne il primo caso di mobbing finito nelle aule penali: si chiuse con condanne definitive, ma in quegli anni l’Ilva non faceva ancora rumore. Poi da procuratore aggiunto, insieme al collega Maurizio Carbone, seguì le inchieste che portarono nel tempo al sequestro delle cokerie e poi dei parchi minerali: indagini che si conclusero tutte a favore dell’accusa, ma già allora la politica trovò i rimedi per consentire alla fabbrica di produrre ancora. Infine l’inchiesta che nel 2012 portò al sequestro dell’intera area a caldo e le maxi perizie che hanno svelato il disastro generato dalle emissioni nocive dell’Ilva. Il maxi processo, però, Sebastio non l’ha mai iniziato: nel 2015 il Governo di Matteo Renzi emanò un decreto che lo obbligò ad andare in pensione: “Mi hanno silurato” aveva raccontato ai cronisti.
Sposato, due figli, una passione infinita per il tennis e la squadra di calcio del Taranto, Sebastio proprio non riusciva a stare senza far niente. Dopo il pensionamento forzato si lanciò in politica come candidato sindaco: nelle elezioni amministrative del 2017 strinse un’alleanza con l’attuale primo cittadino Rinaldo Melucci. Divenne assessore alla legalità, ma la sua esperienza durò soli pochi mesi: “Scendere in politica è stato il mio più grande errore” ripeteva tutte le volte che qualcuno glielo ricordava. Ma non si è fermato. Negli ultimi anni era diventato amministratore delegato di una grossa azienda: il Gruppo Ladisa. La malattia lo ha colpito qualche anno fa, ma solo una cerchia ristrettissima ne era a conoscenza. Le cure oncologiche per provare a vincere quell’ultima battaglia aveva fatto ben sperare fino a poche settimane fa quando la situazione si è aggravata. Franco Sebastio, il magistrato che ha combattuto i tumori a Taranto, è stato ucciso da quello stesso male che aveva provato a debellare dalla sua terra. Con tutte le sue forze, ma senza riuscirci.