Cinema

Liliana Cavani ribelle, scandalosa e politica: i 90 anni di una regista in mondo di uomini

La regista è stata festeggiata al ministero della Cultura a Roma con tutti gli onori di una presidentessa della repubblica del cinema. Tra gli invitati registi erano praticamente tutti uomini: Paolo Sorrentino e Paolo Virzì, ma soprattutto i grandi vecchi rimasti ancora di quel cinema dei sessanta/settanta che diede lustro all’industria e alla cultura italiana: Pupi Avati, e una sorta di doppio mica tanto speculare come Marco Bellocchio

Ribelle, scandalosa, politica. Regista donna in un mondo di uomini. Liliana Cavani compirà 90 anni il 12 gennaio intanto è stata festeggiata al ministero della Cultura a Roma con tutti gli onori di una presidentessa della repubblica del cinema. Oltretutto, e guarda caso, tra gli invitati registi erano praticamente tutti uomini. Paolo Sorrentino e Paolo Virzì, ma soprattutto i grandi vecchi rimasti ancora di quel cinema dei sessanta/settanta che diede lustro all’industria e alla cultura italiana: Pupi Avati, e una sorta di doppio mica tanto speculare come Marco Bellocchio. “Sembrava un’assemblea studentesca”, ha commentato il ministro Sangiuliano (“Per me lei è La pelle, film inno alla libertà”), che ha svelato come l’imbeccata per la festa di compleanno, torta bianca panna e rose rosse in decorazione, sia stata di Vittorio Sgarbi (“tra i film che hanno segnato la mia infanzia ci sono Ultimo tango a Parigi e Il portiere di notte”).

Curioso che una cattolica del dissenso e controcorrente come la Cavani, per decenni vicinissima (e lontanina) dal vulnus “social-comunista” del cinema italiano, sia finita celebrata nell’era Meloni. Le carte si rimescolano, ma senza changer la femme. La carpigiana Cavani che finisce a Roma a girare documentari per la Rai quando nemmeno ha 30 anni e poi esordisce con un Francesco (1966), sul santo d’Assisi, dove l’icona simbolica della ribellione al sistema, Lou Castel, indossa i poveri panni del protagonista. Si racconta che la miniserie tv (due puntatee) registrò venti milioni di spettatori nel maggio del ‘66. Gli anni del disgelo post ’48, l’avvento del Concilio Vaticano II, il cattolicesimo che muta forma e sembra pure sostanza, per la Cavani diventa esordio cinema vero (Francesco finirà in sala per intero nel 1972) con un Galileo in purezza nell’anno della contestazione del ’68. Film sulla curiosità di scienziato che non da scalmanato o da indisciplinato sfidò la visione sul cosmo della Chiesa. Opera che peraltro venne prodotta dalla Rai, ma poi in qualche modo rinnegata dalla Rai stessa e mai trasmessa (l’aneddoto di Andreotti che prega perfino Craxi di non farlo trasmettere in tv è storia).

Cavani non gira granché, proprio a livello quantitativo (quattordici film in 50 anni di carriera), ma ogni volta, che tra i sessanta e settanta mostra le sue riflessioni in immagini colpisce, almeno a livello di spunto e robusta provocazione intellettuale. Vedi il futuro distopico con l’annientamento di qualunque spunto di opposizione politica alle dittature che ritroviamo ne I cannibali (1970) o la malattia psichica trattata come un film d’inchiesta ne L’ospite (1972); o ancora nel 1974 utilizzando inconsciamente anche un certo sdoganamento del proibito e del carnale di quegli anni dirige, facendo davvero scandalo, Il portiere di notte dove il sadomaso diventa la linea vitale tra un ex deportata ebrea e il suo aguzzino dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. “Cinema, televisione, lirica. Politica. […]. Ogni volta che sembra di averla “catturata” lei scarta, ed è tutto da rifare. Molto meglio non provarci, è un tentativo inutile e si sbaglia comunque. Meglio limitarsi a seguirla. Anche perché nulla più del movimento sembra corrispondere a Liliana Cavani ed essere fulcro del suo cinema”, ha scritto Francesca Brignoli, una delle studiose che si è occupata della cineasta carpigiana. Gli anni ottanta, infatti, sfuggono sul piano inclinato di una maturità patinata e culturalmente ampia – i film su Nietzsche, il film tratto da Malaparte – e ancora tanta sessualità che scivola tra la psicanalisi e la storia. Come del resto i novanta sono gli anni dell’auto-reboot: Francesco con Mickey Rourke e Dove siete? Io sono qui dove rifà L’ospite. Un cinema che non asseconda ideologismi precostituiti ma che lascia sempre aperte le porte a forme interrogative della visione. Un cinema che mostra la slabbratura di ferite e divisioni e mai dell’univocità del consenso generale. Oggi sta per finire il suo ultimo film tratto dal libro/saggio di Carlo Rovelli, L’ordine del tempo. Un’associazione letterario cinematografica tutta da scoprire. Chiudiamo, infine, con un’affermazione che la Cavani ha rilasciato non molto tempo fa, in pieno MeToo: “Se una donna fa un film e lo sbaglia, difficile che abbia altre possibilità, se sei un uomo e sbagli ci riprovi subito, ma se questo è vero per la mia epoca ora il clima mi sembra un po’ cambiato, le registe sono di più anche numericamente e questo è già un riscontro, certo sono sempre oneste e seriose, non sono furbe (…) Se le donne imparassero a fare film più facili le cose cambierebbero velocemente, invece se non ci complichiamo le cose non siamo contente. Alziamo sempre l’asticella, non puntiamo al 30 ma al 30 e lode e così siamo sempre in affanno, bisognerebbe liberarsi di questa mentalità”.