Al di là delle polemiche moralistiche, quel che ci dicono plasticamente le immagini del Capodanno da Vip sulle piste di Cortina degli ex premier e dei tanti politici da cinepanettone ‘Vacanze di Natale’, persino nel look, come il neo-ministro del Turismo Daniela Santanchè, è il livello ritornato altissimo dell’indifferenza all’emergenza climatica. Si è sciato, più o meno, nel nostro disastrato arco alpino, da certe quote in su, grazie al cosiddetto innevamento programmato, ovvero ai cannoni sparaneve: alla faccia dell’allarme energia, del caro-bollette e della drammatica crisi idrica. E, particolare non trascurabile, con un incremento notevolissimo degli incidenti gravi, che richiedono dispiegamento di mezzi di soccorso e interventi medico-sanitari, ovvero che poi pesano anch’essi parecchio sulle tasche della collettività. Il caso del Tirolo austriaco, dove si è parlato di neve artificiale killer per il numero dei morti sulle piste a dicembre, è stato poi seguito da titoli analoghi relativi agli incidenti record in alcune aree della Lombardia e del Trentino, tra fine 2022 e inizio anno.

Restando al solo tema dei riflessi sulla sanità, in Svizzera l’ultimo rapporto presentato dall’ente pubblico preposto agli infortuni, basato su dati del 2019, parla di un raddoppio secco in pochi anni del numero di incidenti sugli sci più gravi, dal 10 al 20 per cento del totale, che si ritiene sia dovuto tra l’altro al rinnovamento delle attrezzature, più leggere e più veloci, nonché al tasso d’invecchiamento medio dei praticanti, dove ormai prevalgono gli over 55. L’incremento del numero degli incidenti con conseguenze serie, i cosiddetti politraumi, comporta un forte aggravio dei costi, da 7mila franchi in media del trauma normale sugli sci, al più che raddoppio, 15mila e 500 franchi per ciascun politrauma (l’euro vale più o meno alla pari). E gli svizzeri, com’è noto, si fanno mostrare subito la carta di credito dagli sciatori incidentati che non sventolano un congruo certificato assicurativo.

In Italia si parla soltanto, e con enfasi unanime, dal Pd a FdI, della necessità di rifondere in fretta gli imprenditori alberghieri e degli impianti delle zone turistiche invernali dove di neve sciabile non si è riusciti nemmeno a parlare, perché anche gli impianti d’innevamento artificiale sono dovuti rimanere fermi, come nell’intero Appennino. Si festeggia, casomai, e si finanzia adeguatamente la ricerca trentina per mettere a punto un cannone frigorifero spara-neve che possa funzionare anche con dieci gradi sopra la zero di temperatura esterna. Sic.
A che punto è la notte, è dunque presto detto. E da dove ripartire, oggi, è ancora la domanda da porsi, come abbiamo già notato anche di recente.

Uno dei problemi chiave è quello dell’esito controverso delle azioni dimostrative dei movimenti ecologisti. Si è affermato un certo clima di rigetto schifato dei mass-media dopo gli attacchi con la vernice alle sedi politiche istituzionali e dei ministeri, il Tg1 ha deciso di non trasmettere le immagini, come a suo tempo si faceva con certi comunicati delle Brigate Rosse, con parossismo larussiano (il Presidente Ignazio, infuocato di nome e un po’ di fatto, ha voluto costituire il Senato parte civile contro gli attivisti imbrattatori, evviva). In Francia nessuno ha fiatato contro i metodi decisamente brutali usati dalla polizia in una situazione analoga.

In un clima quasi di complice consenso dell’opinione pubblica, gli eco-attivisti di ‘Ultima generazione’ e similari rischiano accuse giudiziarie e condanne pesantissime, dopo aver preso pure botte da orbi. E’ andata ancor peggio, in termini di rigetto, quando sono finite nel mirino simbolico le opere d’arte. La crisi economica e l’inflazione, il post-pandemia e la guerra in Ucraina, tutto contribuisce a un salto indietro della coscienza ecologica collettiva.

E così risulta sempre più difficile per i movimenti verdi militanti, che una volta avremmo chiamato ‘extraparlamentari’, individuare dei bersagli efficaci. I blocchi stradali, per esempio all’ingresso degli aeroporti, e le azioni clamorose più volte organizzati dagli attivisti di Extinction Rebellion (XR) e dei due gruppi succedanei ancor più duri (Just stop oil e Insulate Britain), causavano inevitabilmente le proteste immediate, di tono piuttosto alto, degli automobilisti e dei viaggiatori coinvolti, e hanno giustificato la dura repressione dei governi, cominciata da Boris Johnson e adottata ora anche in Italia, che si sta rivelando efficace. Perciò il movimento capofila inglese di XR ha deciso di cambiare strada. Scrive da Londra Leonardo Clausi su il manifesto, ‘In un comunicato intitolato We Quit’ (smettiamo, nda), pubblicato il primo dell’anno e che fa il verso alle (spesso velleitarie) risoluzioni di sobrietà con cui ci si appresta a cominciare l’anno nuovo, i militanti hanno annunciato il passaggio dalle succitate azioni a una più convenzionale protesta partecipativa nelle manifestazioni.

E’ un po’ quello che è già successo nel mondo alpino: dimenticati i momenti più spettacolari di lotta, con Messner e Gogna e compagni di Mountain Wilderness che nel 1988 s’appendevano per protesta ai cavi della funivia che da punta Helbronner va nel cuore del massiccio del Monte Bianco, anche i praticanti più sensibili delle attività in montagna hanno riportato le proteste nei canoni dell’ordinaria manifestazione, delle petizioni online, della circolazione d’informazione. Ma, a quanto pare, nessuno ormai s’indigna se buttiamo decine e decine di milioni a rifare strade e impianti per una fantomatica Olimpiade della neve Milano-Cortina, e nessuno nemmeno si chiede quanto costi alla collettività quest’altra nuova impossibile stagione sciistica.

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