Televisione

Lino Guanciale a FQMagazine: “Girando La Porta Rossa mi sono commosso spesso e molto pensando che poteva essere l’ultima volta…”

Dopo un’attesa durata tre anni, debutta su Rai2 la terza e ultima stagione de La porta rossa, la serie culto con Lino Guanciale, e il finale rischia di essere clamoroso. L’attore si prepara dunque a dire addio (o arrivederci, chissà) ad uno dei personaggi grazie ai quali ha conquistato il successo

La domanda delle domande è sempre la stessa: sarà finalmente arrivato per Cagliostro il momento di varcare la Porta Rossa? Dopo un’attesa durata tre anni, debutta su Rai2 la terza e ultima stagione de La porta rossa, la serie culto con Lino Guanciale, e il finale rischia di essere clamoroso. L’attore si prepara dunque a dire addio (o arrivederci, chissà) ad uno dei personaggi grazie ai quali ha conquistato il successo diventando uno dei re Mida della serialità italiana. “Ma considero il successo uno strumento, nulla di più”, racconta alla vigilia della prima puntata della serie, in onda mercoledì 11 gennaio. E a FqMagazine parla anche della nuova stagione di Ricciardi, del teatro come antidoto alla timidezza e dell’accoglienza tiepida di Noi e Sopravvissuti.

Dribblando gli spoiler, cosa dobbiamo aspettarci da La porta rossa 3?
Una sequenza di colpi di scena all’altezza delle prime due stagioni, con una particolare parentela con la prima, dove il focus era concentrato sui rapporti nucleari, ovvero gli affetti di Cagliostro, la famiglia, i colleghi. Nella seconda il focus si è allargato alla città e alla rete di malsane relazioni attraverso le quali il protagonista scopre anche da dove viene e chi erano i genitori.

Nelle quattro puntate nuove si chiude il cerchio?
Si restringe il fuoco, si torna al nucleo storico, al triangolo del rapporto tra Cagliostro, la moglie Anna e Vanessa, la “medium”. Quando la vita sembra finalmente volere andare avanti, un nuovo mistero e una nuova indagine sembrano riportare tutto al punto di partenza.

La domanda delle domande è: sarà finalmente arrivato per Cagliostro il momento di varcare la Porta Rossa?
Quale sia la sorte del fantasma ovviamente non lo svelo ma posso dire che non si resterà delusi: quanto a colpi di scena, siamo in linea con quello iniziale, la morte di Cagliostro.

Nonostante la serie sia di fatto un mistery con una spruzzata di paranormale, genere non sempre in linea col gusto del pubblico italiano, le prime due stagioni sono state un successo di ascolti. Come se l’è spiegato?
Il segreto per agganciare il pubblico è forse proprio il bilanciamento tra il mistery e dramma relazionale, l’investigazione e i sentimenti. Io mi sono innamorato del personaggio e della scrittura appena ho letto il copione: era una scommessa importante e la risposta del pubblico era un’incognita, ma volevamo fare il meglio per ottenere il miglior risultato possibile. Vincere diverse serate è stata una risposta che ci ha felicemente sorpresi.

In questa stagione, i personaggi dovranno confrontarsi, forse in via definitiva, con l’esperienza del distacco dalle persone amate: quando gira queste scene si aggrappa di più al vissuto personale o al mestiere?
Cerco sempre di agganciarmi a qualcosa di autentico e personale per dare ricchezza al lavoro. Tutti nelle nostre vite ci troviamo davanti a diversi finali ma non c’è solo il lutto come esperienza vicina alla fine. C’è la perdita di un caro, la fine di una relazione, lo stop a un progetto cui tenevamo. Per Cagliostro poi la fine non esiste: resta comunque l’eco di un amore, di un’esperienza, di un legame. Ed è un bel messaggio: il tema della risonanza dà speranza.

C’è una fine che l’ha particolarmente segnata, di recente?
Girando La porta rossa 3 mi sono commosso spesso e molto pensando che poteva essere l’ultima volta che mettevo i panni di Cagliostro. Nel mio lavoro non si sa mai, certo, ma è stata una fine difficile da metabolizzare. Mettere nell’armadio il cappotto di Cagliostro è stato più complicato di quanto pensassi.

Dal cappotto di Cagliostro all’impermeabile del Commissario Ricciardi: la seconda stagione inizia il 27 febbraio.
Continuo a destreggiarmi con i fantasmi (dice ridendo). Non posso anticipare nulla, ovviamente, se non che abbiamo cercato di mantenere lo standard alto. Ci sarà un cambio di regia e al posto di Alessandro D’Alatri arriva Gianpaolo Tescari, lo stesso de La porta rossa: c’è un fil rouge che accomuna le due serie ed è questa linea di eleganza di costruzione e di raffinatezza, anche nella scelta degli ambienti e della fotografia.

Ricciardi è stato non solo uno dei prodotti più belli e sofisticati realizzati da Rai Fiction negli ultimi dieci anni, ma anche un successo di ascolti. L’accoglienza di Noi e Sopravvissuti, altre due serie di cui lei era protagonista, è stata invece più tiepida: come se l’è spiegato?
Non soffro di ansia per gli ascolti ma sono comunque uno strumento importante per capire la reazione del pubblico, che ti dice che tipo di lavoro c’è da fare per la costruzione di un dialogo sempre nuovo. Per me sono state entrambe due esperienze importanti e trovo molto confortante che entrambe, in particolare Noi, continuino a fare delle belle performance su RaiPlay. L’importante è non mollare il colpo, continuare a intraprendere strade coraggiose: il pubblico è cambiato, le modalità di fruizione anche ed è importante tentare nuove sfide.

In definitiva, sono progetti che rifarebbe?
Assolutamente sì. Sopravvissuti era nato per Rai2 poi la Rai ha fatto una scelta coraggiosa spostandolo sulla rete ammiraglia, nonostante uno schema narrativo tutt’altro che classico. Lì ho recitato con colleghi stranieri e il confronto è stato importantissimo. A Noi sono grato perché mi ha dato la possibilità di interpretare un personaggio totalmente diverso dai precedenti, meno borghese. Sono felice di queste esperienze.

In una recente intervista ha detto: “Grazie alla recitazione, ho vinto la timidezza”. Del tutto o solo in parte?
Una quota altissima resta, anche se sfumata dall’età e dal contatto con le persone. Dico sempre che a 19 anni, iniziando il corso di recitazione, mi sono fatto un regalo enorme.

Se la ricorda la sensazione che ha provato la prima volta che è salito su un palco?
So che può sembrare un paradosso ma nel luogo dove per definizione si finge un altrove ho sentito la libertà di essere me stesso: con il teatro ho capito che potevo togliere la maschera ed essere ciò che sono davvero. Ed è una forza potente cui mi aggancio ancora oggi, specie quando incombe la routine.

Cosa non le piace del suo lavoro?
Considero l’abitudine il grande nemico: per questo cerco di non trattarlo mai come un mestiere.

Lei è quasi un “caso di studio”: negli ultimi cinque anni il successo le è letteralmente esploso tra le mani. Come lo gestisce?
Trattandolo come uno strumento, nulla di più. L’importante per me è stare concentrato sul lavoro, non abbandonare le cose a cui tengo, come ad esempio la regia teatrale, e non abbandonare la dimensione dove sono cresciuto. L’antidoto al considerare che il successo sia un fine, è restare attaccato alle radici umane e professionali.

La popolarità è una dimensione in cui si sente a suo agio?
Non è la mia dimensione ideale, proprio perché resto profondamente timido. Ma uno può scegliere come utilizzare la popolarità: nel mio caso, quando ho notato che era incrementata, ho scelto di sfruttare il potenziale del contatto con il pubblico non in ambito commerciale, ma culturale e politico. Così, dal 2016, sono uno dei testimonial e sostenitori di Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Qual è la cosa che le chiedono più spesso quando la riconoscono?
In questi anni mi hanno chiesto spesso quando sarebbe tornato Cagliostro. Mi fa invece molto ridere quando dicono “oh, ma lei è molto più giovane che in tv”: spero continuino a dirlo ancora per un po’ e soprattutto a dimostrarmi l’affetto sincero che colgo nelle loro parole di stima.