La riforma cancella i limiti del cosiddetto "patteggiamento in Appello": dal 30 dicembre il pm può accordarsi con l'imputato e rinunciare al processo di secondo grado per qualsiasi reato, anche quelli più odiosi e gravi. L'ennesimo assist all'impunità, che ha già prodotto effetti almeno in un clamoroso caso a Venezia. Eugenio Albamonte, pm a Roma: "Così la tentazione di togliersi un fascicolo diventerà fortissima. E il rischio è perdere di vista la gravità dei fatti"
Patteggiare sempre e comunque, per abbattere il carico di fascicoli. Anche per reati odiosi e gravissimi: mafia e terrorismo, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, prostituzione minorile o violenza sessuale su minori. Rinunciando a processare imputati già condannati, anche se delinquenti abituali o professionali, e garantendo loro ampi sconti di pena, magari con il bonus di non finire nemmeno in carcere. Ecco l’ennesimo assist all’impunità – finora passato in sordina – della riforma penale di Marta Cartabia, che ha già prodotto effetti almeno in un clamoroso caso a Venezia: un uomo responsabile di abusi sessuali sulla figliastra 11enne, condannato in primo grado a sei anni di reclusione, ha strappato una riduzione di oltre un terzo della pena, scesa a tre anni e otto mesi, senza nemmeno celebrare l’appello. E ottenendo così allo stesso tempo il beneficio della detenzione domiciliare, che per le condanne fino a quattro anni – altra novità della riforma – può essere concesso direttamente dal giudice di merito, in questo caso la Corte d’Appello, senza bisogno di passare per la magistratura di Sorveglianza.
Vediamo perché. Tra le innumerevoli norme che rivoluzionano il processo penale, nel decreto delegato firmato dell’ex Guardasigilli – entrato in vigore il 30 dicembre scorso – ce n’è una che modifica i requisiti per accedere al “Concordato con rinuncia ai motivi di appello“, anche detto “patteggiamento in appello“. Si tratta di un istituto previsto dall’articolo 599-bis del codice di procedura: prima che inizi il processo di secondo grado, l’accusa può accordarsi con l’imputato per accogliere uno o più dei suoi motivi d’appello, riducendo la pena di conseguenza. In cambio, la difesa rinuncia a discutere gli altri motivi e a proporre ricorso in Cassazione. L’accordo dev’essere approvato dalla Corte d’Appello: se i giudici danno l’ok, il processo non inizia nemmeno e la condanna diventa definitiva. Finora però, come tutti i riti alternativi, il “patteggiamento in appello” incontrava dei limiti di applicazione: era vietato, appunto, nei processi per tutti i reati di mafia e terrorismo, per i più gravi delitti contro la persona o attinenti alla sfera sessuale, o contro imputati “dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza”. Tutti casi in cui si è sempre ritenuto sbagliato consentire un accordo tra le parti senza passare per un giudizio. Da qualche giorno, con l’entrata in vigore della riforma, questi limiti non esistono più: qualsiasi imputato potrà sperare di trovarsi di fronte un pm e dei giudici “di buon cuore” (o magari desiderosi di evitare udienze lunghe e complicate) pronti ad accordarsi con il suo avvocato per una grossa riduzione di pena.
L’intento della nuova norma è chiaro: incoraggiare al massimo i patteggiamenti per ridurre l’arretrato enorme che grava sulle Corti d’Appello e rispettare gli obiettivi del Pnrr. Ma anche qui gli effetti – come quelli dell’ampliamento della procedibilità a querela – rischiano di essere devastanti. “Il pericolo è che le Corti d’Appello e i procuratori generali (i pm di secondo grado, ndr) applichino questo istituto pensando solo a ridurre il carico arretrato, perdendo di vista il merito del processo e la gravità dei reati“, dice al fattoquotidiano.it Eugenio Albamonte, pm a Roma, segretario della corrente progressista di Area ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. “Anche perché”, ricorda, “il pm di appello non fa le indagini, non ascolta vittime o testimoni, si basa solo sulle carte: è più facile vedere in maniera “edulcorata” i fatti di causa. Se poi aggiungiamo le pressioni a cui siamo sottoposti per l’iper-produttività, spesso quasi persecutorie, la tentazione di “togliersi un fascicolo di torno” può diventare fortissima, soprattutto nelle corti d’Appello più gravate”, avverte. Ricordando che in passato il patteggiamento in appello era stato abrogato perché “controproducente rispetto alla politica dei riti alternativi: è più difficile che l’imputato accetti di patteggiare in primo grado se sa di poter ottenere lo stesso risultato in appello. A maggior ragione, consentirlo per qualsiasi reato mi sembra incomprensibile“.