Un carabiniere solo e nudo a Capaci. È questo il fermo immagine che racchiude il cuore della storia raccontata da Giuseppe Lo Bianco nel suo ultimo libro “Un’indagine pericolosa” (Zolfo, 2022). Una storia che parte dagli anni ’90 e arriva ai giorni nostri con una scena surreale: è il 13 maggio del 2022, il consiglio di Capaci è convocato all’aperto, per parlare con tutto il paese dell’organizzazione delle commemorazioni per il trentennale delle stragi. Prende la parola il consigliere comunale Salvatore Luna, il luogotenente dei carabinieri che alterna l’attività politica a quella nell’arma e 10 giorni prima della commemorazione a 30anni di distanza, ci tiene a sottolineare che Capaci “non è un paese di mafiosi, qualcuno dice che c’è, che la trovasse…”. Da lì si accende un dibattito sulla presenza o meno della mafia a Capaci degna di un clima precedente agli anni ’90, che non a caso occupa pure le cronache internazionali di quei giorni. Ed è proprio Luna uno dei principali accusatori del comandante dei carabinieri, Paolo Conigliaro, un investigatore col piglio antimafia che per “quattro lunghissimi anni” è stato “infilato in un tritacarne disciplinare e penale, umiliato professionalmente e mortificato umanamente, uscendone alla fine a testa alta. Nel frattempo le sue indagini sono state prima ostacolate, poi bloccate, infine archiviate in una singolare sincronia con i tempi delle accuse nei suoi confronti, che lo hanno trasformato da investigatore a indagato per un capo d’imputazione inconsistente”. Umiliato e mortificato.

Ad una settimana dal suo passaggio alla Dia, Conigliaro viene convocato nella caserma di Carini, e trattato come un criminale, viene fatto spogliare. Una storia che mette a nudo soprattutto le fragilità del nostro sistema democratico, come giustamente sottolinea l’autore del libro. Lo Bianco, palermitano, grande esperto di cronaca giudiziaria che frequenta già dagli anni caldissimi del maxi processo, con l’Ora, cronista adesso del Fatto Quotidiano, ripercorre le vicende che hanno portato un investigatore dei carabinieri con una spiccata predisposizione alla lotta alla mafia a denudarsi di fronte ai colleghi, trattato come un feroce terrorista. È l’immagine che si sceglie in mezzo a una furiosa catena di avvenimenti che svela lo stato di salute della lotta alla mafia, trent’anni dopo le stragi. E trent’anni dopo Lo Bianco ci riporta a Capaci. Un piccolo comune siciliano, un comandante dei carabinieri che come un Bellodi sciasciano si muove nel territorio in rappresentanza dello Stato: ecco gli ingredienti del calvario di Conigliaro. Che, diversamente da Bellodi, è però nato a Palermo, dove è cresciuto, nutrito da una forte spinta di rivalsa contro la mafia, deciso ad entrare nell’Arma dei Carabinieri. Esordisce da militare in Calabria per tornare dopo alcuni anni in Sicilia: il percorso di Conigliaro è “senza riposo” (così lo descriverà Paolo Azzarone, generale dei Carabinieri in congedo dalla Dia, dove Conigliaro entrerà e sarà finalmente “protetto”).

Dal 2013 approda a Capaci e di lì a poco il percorso senza risposo del militare piomba prima lentamente poi improvvisamente nell’incubo: “Per quattro lunghissimi anni un investigatore dei carabinieri con un curriculum solidissimo nel contrasto alla mafia è stato infilato in un tritacarne disciplinare e penale, umiliato professionalmente e mortificato umanamente, uscendone alla fine a testa alta. Nel frattempo le sue indagini sono state prima ostacolate, poi bloccate, infine archiviate in una singolare sincronia con i tempi delle accuse nei suoi confronti, che lo hanno trasformato da investigatore a indagato per un capo d’imputazione inconsistente”. Ma perché succede tutto questo? Per rispondere bisogna prima capire dove è successo: “Capaci è una sorta di crocevia tra più mandamenti mafiosi… Le indagini portano a galla l’alleanza, ormai non più inedita, tra corleonesi ed ex perdenti che per fare affari si mettono d’accordo, superando antiche, no ad allora insormontabili, rivalità di sangue”. Ed è esattamente qui che “non esiste un cinema, non c’è uno spazio pubblico per dibattiti, c’è una sola libreria, rimasta chiusa per anni”, ci racconta Lo Bianco. È qui che Conigliaro apre gli occhi, segue i consigli comunali, in una parola: indaga.

Quelle indagini confluiranno così in una richiesta di scioglimento del comune di Capaci per mafia. Una richiesta che non supererà mai la soglia dei comandi militari per approdare in prefettura. Questo è il primo punto da fissare. Il secondo è il progetto di un centro commerciale, settore che in Sicilia ha attratto non pochi appetiti di Cosa nostra. La società interessata al centro era la P.R. Srl di cui sono socie due società di cui una facente capo Massimo Michele Romano, imprenditore coinvolto nel “caso Montante”. Alle riunioni tecniche per il progetto del centro commerciale prendevano parte, secondo quanto riferito da un funzionario “i rappresentanti dell’impresa P.R. e i legali dello studio Pinelli-Schifani”, lo studio legale fondato dall’attuale presidente della regione, Renato Schifani.

Dietro l’affare del centro commerciale a Capaci, si cela “un’operazione politico-affaristica gestita a tavolino da una lobby nazionale con l’appoggio locale di politici di area Pd e l’assistenza legale dello studio fondato da uno dei proconsoli di Berlusconi in Sicilia”. Una storia apparentemente piccola, in un comune piccolo, finita sotto i riflettori dell’antimafia nazionale guidata da Nicola Morra, ripercorsa da Lo Bianco che con sapienza mette in luce il contesto più ampio in cui si inserisce e la sua valenza universale. “Sono 89 i comuni siciliani sciolti per mafia in trent’anni, in media tre all’anno. Dal 1991, alcuni anche più volte” ricorda nel libro. Numeri e fatti che hanno un’interpretazione chiara: “La conferma che la mafia, lungi dall’essere stata definitivamente sconfitta nella stagione del dopo stragi, in Sicilia continua a restare una questione di democrazia, che investe direttamente le responsabilità politiche delle classi dirigenti e dei cittadini nell’urna elettorale e che non può essere risolta unicamente attraverso il volto repressivo dello Stato”.

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