Nel 2o06 era una “scelta oligarchica”, un “errore drammatico” nel 2015 e una vera e propria “vergogna” nel 2017. Peggio ancora nel 2021, addirittura “una mortificazione del Parlamento, una deriva democratica”. C’era una volta Giorgia Meloni, quella che dai banchi dell’opposizione lanciava strali contro ogni governo (di cui non faceva parte) che facesse ricorso alla questione di fiducia per far passare i provvedimenti legandoli al destino del governo. Tutto questo fino al 22 ottobre scorso, perché quando la premier diventa lei, la musica cambia: i voti di fiducia fioccano come e più di prima, ma l’allarme democratico non si sente più. Proprio così, col decreto Aiuti-quater l’esecutivo Meloni arriva a 5 fiducie in 81 giorni, contate le domeniche, e batte ogni record nello sport che contestava fin tanto che era all’opposizione; con l’aggravante per altro di avere in Parlamento una maggioranza schiacciante (57,8%), come poche se n’erano viste a sostegno di un governo politico.

Il pallottoliere sui voti di fiducia dice che Meloni ha già battuto i precedenti inquilini di Palazzo Chigi, vale a dire Mario Draghi ed e entrambi i governi guidati da Giuseppe Conte. Draghi è entrato in carica il 13 febbraio 2021 e nei primi 80 giorni ha posto la fiducia su due provvedimenti, entrambi al Senato. Il secondo governo Conte, tra il 5 settembre e il 14 novembre 2019, aveva chiesto la fiducia due volte alla Camera e una al Sento, mentre il primo (1 giugno e 10 agosto 2018), neppure una volta. E se continuerà di questo passo sarà record di legislatura: nella XVI (2008-2013) ci sono stati 96 voti di fiducia su disegni di legge, 1,6 al mese, nella XVII (2013-2018) sono stati 108 e nella scorsa 106. Giorgia batte tutti con una media di 2,5 al mese. Giocando coi numeri si può dire che – al ritmo attuale – al 2028 ne metterebbe a segno 150. Per carità, nulla di male, se non si vede dietro ogni fiducia lo spettro del “problema democratico”. Ma è proprio quel che ci ha visto per anni l’attuale premier, quando premier non era. Un po’ come sulle accise, con la Meloni d’opposizione che dall’abitacolo di un’auto ne promette l’abolizione e quella che dai banchi del governo toglie gli sconti. Basta riavvolgere il nastro per trovare l’altra Giorgia.

Nel 2006 c’era ancora l’Unione di Prodi e la più giovane vicepresidente della Camera alzava la voce contro la decisione del governo di porre la questione di fiducia sulla finanziaria. “La maggioranza rivela la sua vocazione oligarchica, sottraendo agli i italiani i conti di casa e riscrivendoli col favore delle tenebre in Consiglio dei Ministri!”. Sul punto Meloni si dimostra coerente 15 anni dopo, tanto che il 30 settembre 2021 scriverà al presidente Mattarella per denunciare il “gravissimo atto di arroganza” che il governo Draghi avrebbe commesso nei confronti del Parlamento sull’esame della manovra finanziaria: “L’Esecutivo e la sua maggioranza hanno espropriato le Camere del diritto di esaminare la legge più importante dello Stato!”. Peccato sia la stessa questione di fiducia che ha appena posto una volta che è toccato a lei, appena un anno dopo. Giorgia Meloni aveva accusato Draghi anche per l’eterogeneità dei fini dei provvedimenti conditi dalla fiducia, come la giustizia penale e civile e il gren pass. Una prassi da cui il Parlamento finiva “mortificato da una deriva preoccupante”. Arrivata al governo, con una sola fiducia alla Camera, ha fatto passare insieme la stretta su rave party e il reintegro dei medici anticovid, che altrettanto poco c’azzeccano. Ma ora, per Giorgia, va tutto bene.

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