Dalle indagini sull’invasione dei palazzi istituzionali nella capitale brasiliana della scorsa domenica si evince che il Paese sia stato molto più vicino a un colpo di stato di quanto le stesse immagini della devastazione della piazza dei Tre Poteri lascino trasparire. A gettare nuova luce su uno scenario sempre più inquietante è la notizia del ritrovamento nell’abitazione dell’ex ministro della Giustizia del governo Bolsonaro, Anderson Torres, (del quale la Corte Suprema ha chiesto l’arresto) di una bozza di decreto che stabilisce l’adozione dello “stato di difesa” presso il Tribunale superiore elettorale (Tse). Obiettivo della misura straordinaria che, i primi di novembre, avrebbe decretato l’intervento d’imperio del governo uscente sulle strutture della giustizia elettorale, era infatti sospendere e rivedere il risultato delle elezioni del 30 ottobre, favorevole al presidente Luiz Inacio Lula da Silva.

La Costituzione brasiliana prevede che il presidente possa decretare lo “stato di difesa” per “conservare o ristabilire tempestivamente, in luoghi ristretti e determinati, l’ordine pubblico o la pace sociale minacciati da gravi ed imminenti dissesti istituzionali”. Il decreto, che deve tuttavia essere inviato al Parlamento entro 24 ore e lì approvato a maggioranza assoluta, non è mai stato firmato dall’allora presidente Jair Bolsonaro e dunque l’intervento per cancellare il legittimo risultato delle elezioni è rimasto solo una bozza.

A mancare sarebbe stato il sostegno politico all’iniziativa. Quello cui Bolsonaro fa riferimento nelle ultime parole rivolte ai suoi sostenitori prima di lasciare il Paese il 30 dicembre discolpandosi di non aver fatto nulla per impedire a Lula di insediarsi alla presidenza. “Ci sono persone che mi accusano perché avrei dovuto fare qualcosa”, affermava in una trasmissione su Facebook, spiegando di aver cercato “alternative” e “una via d’uscita” ma di “non aver avuto sostegno” politico e istituzionale per compiere i suoi piani.

Sfumata la possibilità dell’intervento istituzionale sulla giustizia elettorale, il “Piano A”, i sostenitori dell’ex presidente hanno dunque deciso di portare avanti il “Piano B”, come la marcia sugli edifici sede dei poteri istituzionali era stata ribattezzata tra gli stessi fanatici bolsonaristi nei gruppi di WhatsApp e Telegram usati per coordinare le azioni sul campo.

Ai tempi del “Piano B”, intanto, Anderson Torres non era più il ministro della Giustizia di Bolsonaro, bensì, da appena una settimana, il segretario della Pubblica sicurezza del Distretto federale. Il responsabile dell’ordine pubblico a Brasilia, già sospettato di negligenze e colpito da mandato d’arresto con l’accusa aver “messo in atto una strutturata azione di sabotaggio” nella sicurezza della capitale federale nel giorno in cui è stata attaccata senza precedenti.

Che il piano dei vandali fosse mostrare la vulnerabilità della capitale e destabilizzare l’ordine costituzionale è apparso chiaro. La vera trama golpista dietro gli eventi è stata svelata dallo stesso presidente Lula in un incontro con la stampa in cui per la prima volta ha accusato apertamente le forze armate di fomentare le rivolte. “Molti componenti della Polizia militare del Distretto federale e delle forze armate sono stati conniventi con i terroristi. La porta del Palazzo è stata aperta per far entrare le persone”, ha dichiarato Lula.

Perché? Secondo l’ex sindacalista se di fronte al caos e all’apparente mancanza di controllo di domenica il governo anziché intervenire ‘civilmente’ commissariando la sicurezza pubblica di Brasilia, avesse invece chiesto l’intervento ‘militare’ delle forze armate ai sensi della norma di Garanzia della legge e Ordine (Glo), “avremmo conferito pieno potere politico alle forze armate portando a compimento il colpo di stato che in tanti già aspettavano” ha detto Lula. “Avrei smesso di essere il capo del governo perché qualche generale assumesse l’incarico. Cosa che non è successa e non succederà”, ha sottolineato.

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