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Le conclusioni della Cop 27

Il 20 novembre, alla COP 27 di Sharm el-Sheikh, tra lo stallo dei governi e le pressioni delle lobby e dopo un’impasse tesa e molte ore di negoziati, quasi 200 paesi hanno raggiunto un accordo per istituire un fondo perdite e danni per assistere le nazioni più colpite dal cambiamento climatico – una richiesta considerata non negoziabile dai paesi in via di sviluppo. Questo però è l’unico risultato davvero significativo dell’Assise protratta tra notevoli tensioni oltre la sua scadenza prevista, dopo aver constatato l’impossibilità di far avanzare il processo avviato dopo Parigi 2015 verso il contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Ridurre gli obiettivi di Next Generation Ue?

Il confronto a tre (Commissione, Consiglio e Parlamento Ue) di inizio anno sulla tassonomia sembra ripetersi sulla riduzione dell’obbiettivo di rinnovabili al 2030, dal 45% al 40 %. I 27 ministri dell’Energia hanno trovato una maggioranza che sostiene la riduzione dell’obbiettivo, osteggiato solo da Austria, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna, ma non dall’Italia. Toccherà al Parlamento organizzare una risposta per mantenere il 45% come livello da perseguire.

Ma anche la Germania sta glissando su queste aspettative: infatti è significativa la resistenza della popolazione di Lützerath, un piccolo centro della Renania, nella Germania nordoccidentale, che deve scomparire per far posto all’ampliamento di una delle maggiori miniere a cielo aperto d’Europa, che dovrebbe aumentare di 280 milioni di tonnellate l’estrazione di lignite. Malgrado le precedenti promesse di non farlo e i solenni impegni sulla riduzione delle emissioni che puntuali si rinnovano ad ogni conferenza internazionale sul clima, le istituzioni tedesche locali e nazionali hanno deciso di radere al suolo a metà di gennaio del 2023 il villaggio per continuare i processi di escavazione.

C’è solo un piccolo ostacolo: la popolazione locale – qualche migliaio di cittadini – e i movimenti territoriali non sono affatto d’accordo e hanno cominciato a fermare le solerti autorità che devono garantire la presunta inevitabile avanzata del progresso piegando brutalmente ogni resistenza.

Ccs a Ravenna?

Il nuovo ministro dell’Ambiente (più precisamente ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) Pichetto Fratin e la nuova Presidente del Consiglio Meloni fanno una gran pubblicità alla trasformazione del nostro Paese nell’Hub di distribuzione del gas per l’Europa come se fosse una idea rivoluzionaria del governo appena insediatosi. In realtà era già un progetto del governo precedente sponsorizzata da Eni, in questi mesi in odore di rinnovo del suo CdA. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e l’amministratore delegato di Snam, Stefano Venier, hanno firmato lo scorso 19 dicembre un accordo attraverso il quale Eni e Snam, in joint venture paritetica, collaboreranno allo sviluppo e alla gestione della Fase 1 del Progetto Ravenna di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), che prevede la cattura di 25mila tonnellate di CO2 dalla centrale Eni di trattamento di gas naturale di Casalborsetti (Ravenna). Una volta catturata, la CO2 sarà convogliata verso la piattaforma di Porto Corsini Mare Ovest e infine iniettata nell’omonimo giacimento a gas esaurito, nell’offshore ravennate. A testimonianza, quindi, di quanto il metano rimanga strategico nelle intenzioni delle burocrazie che guidano la politica energetica nazionale.

Extraprofitti e prezzo del gas

Grazie alle sanzioni, le società energetiche americane (v. Financial Times, 5 novembre 2022) hanno registrato tra aprile e settembre 2022 extra profitti per 200 miliardi di dollari, mentre le metaniere Usa navigavano davanti alle coste europee europee per scaricare quando i prezzi erano (e sono) ancora elevati. Bp, Eni, Equinor, Repsol, Shell e TotalEnergies, ovvero le sei principali oil major europee, hanno incamerato 74,55 miliardi di dollari di extra-profitti nel solo primo semestre del 2022.

E’ toccato a Starace, ad di Enel, di criticare al meeting Ambrosetti di Cernobbio l’eccessiva dipendenza del Paese dal gas. Anche queste voci autorevoli sono però oscurate dalla politica nostrana, che ha nel gas e nel possibile ripristino del carbone la carta che preferisce adottare in emergenza.

In una fase in cui vediamo le nostre bollette aumentare a dismisura, sia per effetto della speculazione finanziaria che della guerra, dobbiamo – oggi più che mai – leggere la situazione in tutta la sua enorme complessità, per non lasciare che l’emergenza e le paure di un carico insostenibile per bisogni primari siano usate per ridefinire la direzione delle politiche energetiche, gli assetti internazionali e, addirittura, il futuro del pianeta sulla base degli interessi di pochi.

Contrariamente a quello che ci viene detto, quello che viviamo oggi è il prezzo per non aver investito sulla transizione verde. Con la corsa al gas stiamo arricchendo governi autocratici quali Egitto, Azerbaigian, Algeria, Repubblica del Congo e ne stiamo avallando le drammatiche politiche repressive dei diritti umani e sociali e gettando così le basi per nuovi conflitti.

A livello europeo si è concordato che il prezzo del gas non debba scendere sotto un certo livello, per non penalizzare eccessivamente gli scambi speculativi di mercato dove viene quotato. E’ il mercato di Amsterdam (TTF) che decide il prezzo del gas, definendolo sulla base dei titoli future e non sull’effettivo scambio tra offerta e domanda. La sua recente oscillazione tra 330 euro al MWa ed il valore attuale attorno ai 100 euro al MWa è dovuta variabili contingenti, ma non si riflette immediatamente sul consumatore finale. Il regolatore europeo ha solo funzioni di coordinamento e armonizzazione ed il price cap introdotto per i valori dell’energia elettrica fissato a livello europeo è regolato al fine di evitare eccessive distorsioni prodotte dall’interscambio. E ciò non per fissare un prezzo “politico” in una fase di assoluta eccezionalità, ma per assicurare comunque margini di profitto alle compagnie Oil &Gas.

Il cambio di prospettiva

In direzione positiva, anche se criticata dai gruppi ambientalisti secondo cui l’accordo non è all’altezza di quanto necessario per mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto di 1,5 °C, va citata la nuova normativa UE sul Sistema per lo scambio delle quote di emissioni (ETS). La riforma degli Ets amplierà la platea dei settori interessati e ridurrà l’inquinamento del 62% entro il 2030, rispetto al 43% previsto attualmente. Il sistema Ets attuale riguarda circa 10.000 fabbriche e centrali elettriche, consentendo a chi ha quote di emissione in eccesso di realizzare un profitto più contenuto, vendendo permessi di CO2 sul mercato. Il prezzo del carbonio sarà di circa 100 euro, rispetto agli 80-85 euro attuali ed i permessi di emissione gratuiti saranno gradualmente sostituiti dalla nuova tariffa sul carbonio alle frontiere.

Ricorro, a titolo conclusivo, ad una serie di osservazioni portate con competenza da Leonardo Berlen su Qualenergia e da me condivise.
In Italia abbiamo dai tre ai cinque anni per cambiare marcia al fine di arrivare ad installare al 2030 70 nuovi GW tra fotovoltaico ed eolico, investire in reti di distribuzione e trasmissione, elettrificazione dei consumi, sistemi di accumulo di vario tipo, iniziare a rendere operativi diversi elettrolizzatori per la produzione di idrogeno verde, per non parlare della riqualificazione profonda del nostro energivoro parco edilizio. Sotto questo profilo, la realizzazione del progetto eolico e fotovoltaico di Civitavecchia assume, anche per i tempi di attuazione e per la mobilitazione che l’ha sostenuto, una funzione nazionale paradigmatica.

Sono necessari interventi su vari fronti, sia sul quello autorizzativo e normativo per allocare ingenti investimenti nella formazione di tecnici e di addetti della pubblica amministrazione nazionale e locale, sia su quello della programmazione di politica industriale che favorisca la nascita di linee produttive nazionali per sistemi e componenti essenziali nell’ambito di una manifattura oggi in crisi e da riconvertire a confronto di prodotti importati da mercati in cui gli standard ambientali sono più deboli e che altrimenti godrebbero di un vantaggio competitivo ingiusto.
Per il solo fotovoltaico si tratta di allestire e collegare in rete 8 GW all’anno, passando dai 27 TWh/anno generati oggi dal solare a 100 TWh/anno: una produzione che ci consentirebbe di evitare l’importazione di 20 miliardi di metri cubi di gas/anno. Un compito ed una sfida che anche culturalmente deve riguardare la politica l’imprenditoria, il sindacato.

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